Spettacoli

La vita è una Sarabanda? Ingmar Bergman per la regia di Roberto Andò al Teatro Stabile

In scena alla Sala Verga del Teatro Stabile di Catania: Sarabanda di Ingmar Bergman. Traduzione di Roberto Zatti, regia di Roberto Andò, scene di Gianni Carluccio, costumi di Daniela Cernigliaro, musiche Pasquale Scialò, suono di Hubert Westkemper. Con Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia Schilton, Caterina Tieghi. Produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale / Teatro Nazionale di Genova / Teatro Biondo Palermo. In accordo con Arcadia & Ricono Ltd, per gentile concessione di Joseph Weinberger Limited, Londra, per conto della Ingmar Bergman Foundation.

Solo a sentir pronunciare il nome di Ingmar Bergman (1918-2007) mi sento trasportata di botto agli anni del liceo, quando insieme ai miei coetanei (saremmo stati la generazione del ’68) impegnati negli studi dell’allora severo “Liceo Cutelli”, e soprattutto con i più grandi’, gli universitari, venivamo coinvolti dall’entusiasmo di Gianpiero Mughini (poi eccentrico opinionista televisivo) e del mai abbastanza rimpianto Nino Recupero (in seguito storico docente universitario) nella magica e formativa esperienza del C.U.C. (Centro Universitario Cinematografico).
È lì che avvenne il nostro primo incontro con il cinema introspettivo proprio attraverso quell’iconica serie di film che il grande regista svedese aveva prodotto tra il 1956 e il 1960: Il Settimo Sigillo, Il posto delle Fragole, Il volto, La fontana della vergine.
Ad altra epoca della sua vita, complicata da molti amori, ben cinque matrimoni e lunghe crisi depressive.
Dopo la cosiddetta “tetralogia di Fårö” – che avrebbe reso definitivo il suo ritiro nell’isola che aveva acquistato e dove abiterà fino alla sua morte – e ancora, dopo Scene da un matrimonio del 1973 arriverà, a trent’anni di distanza (2003), il film Sarabanda, la cui trasposizione in drammaturgia teatrale, per la regia di Roberto Andò (classe 1959) fresco di premi e di successi cinematografici, è in scena alla Sala Verga dello Stabile di Catania.
Recitata da un cast di altissimo livello, la pièce in 10 spezzoni, scritta dallo stesso Bergman, riporta in un proscenio arditamente realizzato da Gianni Carluccio attraverso inquadrature create da pareti mobili che si muovono in senso orizzontale e verticale quasi a voler riprodurre dei fotogrammi, gli stessi protagonisti del film del ’73, ma ormai vecchi, insieme ad Henrik (Elia Schilton) figlio di Johan, vedovo della mai dimenticata Anna che sembra aleggiare, invisibile, nelle parole, nei gesti e nei silenzi dei protagonisti, e incapace, fino alla spietatezza di staccarsi dalla giovane figlia Karin (Caterina Tieghi).
L’ottantaduenne Renato Carpinteri, grande e magnifico attore, domina la scena interpretando il misantropo Johan, deluso e pieno di astio e rabbia contro tutti, tranne la giovane nipote, che conduce vita solitaria in un rifugio nella foresta (dove a breve distanza vivono il figlio e la nipote) e che improvvisamente riceve una visita apparentemente ‘indesiderata’: l’ex moglie Marianne (Alvia Reale) attraverso cui vivremo il sentire degli altri.
C’è tutto il dramma della loro esistenza in questa Sarabanda – la sensuale antica e lenta danza barocca, spagnola, che domina sulla scena attraverso la suite n. 5 per violoncello di Back – : lo scontro tra generazioni il rimpianto, la nostalgia, la solitudine, l’incomunicabilità, gli egoismi portati avanti fino alla crudeltà, il senso del possesso che giunge quasi a sfiorare l’incesto, i sogni giovanili ostacolati proprio da chi dovrebbe proteggerli, la rivolta ( “Voglio far parte di un’orchestra, non esser solista” dirà Karin).
Anche per Bergman “la disperazione è la malattia mortale, un eterno morire senza morire, l’assenza della speranza di poter vivere”.
Ma soprattutto è la paura della solitudine che accompagna gli ultimi anni, il peso dell’approssimarsi al giudizio, della morte ineluttabile, ciò che incombe sulla scena.
Prima c’è la vita, un attimo dopo non c’è più: dice Johan; è così facile… Tutta la vita ad interrogarci sulla morte… su quel che c’è o che non c’è, quando è così semplice, replica Henrik!
Il bisogno di trovare conforto si quieta con un abbraccio tra i due ex coniugi che si ritrovano nudi mettendo in mostra, senza falsi pudori, i segni impietosi della vecchiaia?
Oppure è dominante il bisogno di incontrare un ente supremo improbabile ma necessario, l’intensa e quasi struggente ricerca di un ignoto Dio?
È sempre la stessa domanda che Bergman si poneva agli inizi, nel Settimo sigillo: “Cavaliere: Io voglio sapere. Non credere. Non supporre. Voglio sapere. Voglio che Dio mi tenda la mano, mi sveli il suo volto, mi parli. Morte: Il suo silenzio non ti parla?”
Nell’epilogo di questa danza d’amore e di morte appariranno nella stessa inquadratura i quattro protagonisti nudi, a mezzo busto, soli, ognuno chiuso nel proprio urlo silenzioso, un grido di dolore senza parole, senza dialogo, senza conforto.
È stata definita come il capolavoro degli addii di Ingmar Bergman questa meditazione universale, questa riflessione intima e dolorosa sulla ricerca di significato della solitudine e del dolore, sui rapporti familiari, sull’odio e sull’amore, sul peso del passato.
La profondità e l’intensità è quella tipica delle angosce bergmaniane e colpisce con la stessa veemenza lo spettatore.
È il miracolo dell’arte!

Foto di Lia Pasqualino

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