Sant’Agata, tradizione popolare e antiche leggende
La vita e il martirio di Sant’Agata, nel corso dei secoli, sono stati avvolti in un alone leggendario che ha alimentato numerosi racconti popolari.
Si narra che durante il suo martirio, una notte, poco prima di morire, le comparve San Pietro che la medico è le sanò tutte le ferite.
E che il giorno del processo la terra tremò per una scossa spaventosa e che il proconsole Quinziano capì che era un segno divino e ne ebbe paura, ma non sfuggì alla sua punizione divina. Poco dopo la morte di Agata, dovette scappare perché la folla inferocita si scagliò contro di lui. Però mentre stava attraversando il fiume Simeto i suoi cavalli si imbizzarrirono e venne disarcionato.
Quinziano cadde in acqua e morì annegato.
Da quel giorno, ogni anno, tra la notte del 4 e del 5 febbraio, si narra che si odono ancora il nitrito dei cavalli e le sue urla disperate.
Un’altra leggenda, sempre legata a Quinziano, narra che il proconsole per convincere la giovane Agata a intraprendere la via del piacere, la affidò alle arti di una meretrice e che questa, dopo neanche un mese, la riportò indietro non avendo raggiunto alcun risultato.
La Leggenda dell’Impronta racconta che, di fronte alle insistenze di Quinziano, Agata rispose:
“E’ più facile che si rammollisca questa pietra che non il mio cuore alle tue blandizie!” e battè il piede così forte che lasciò un’orma su una pietra conservata ancora oggi nella Chiesa del Santo Carcere.
Anche il Velo di Sant’Agata è parte dei racconti ancestrali tramandati di generazione in generazione.
Il Velo rosso che ricopriva il capo di Agata, il Flammeum, con molta probabilità la Santa lo indossava su una tunica bianca, in quanto vergine consacrata a Dio, nel momento del processo e del martirio.
Secondo la leggenda il Velo fu usato da una donna per coprire la Santa durante il martirio dei carboni ardenti.
E lo storico Carrera testimoniò che “mentre Agata stava posta sui carboni accesi il Velo rimase intatto”.
Affermazioni che hanno alimentato la leggenda del potere di questo Velo: esso non brucia a contatto con il fuoco
Infatti si narra che, dopo essere stato portato in processione più volte davanti alle colate laviche, non ha mai subito danni.
Inoltre si racconta che il Velo di Sant’Agata più di 15 volte dal 252 al 1886 abbia salvato la città di Catania dai terremoti e dalle eruzioni dell’Etna.
Si tramanda che l’anno dopo la morte di Agata il 1 febbraio una grave eruzione vulcanica distrusse molti paesini alle pendici del vulcano. Spaventati i catanesi si recarono in Cattedrale e, preso il Velo, lo portarono in processione.
Miracolosamente , il 5 febbraio, il giorno del martirio, la colata si arrestò.
Così come si racconta che, durante la devastante eruzione del 1669, che durò per 4 mesi e distrusse molti paesi fino ad arrivare a Catania, quando il fiume di magma giunse nelle vicinanze della Cattedrale, deviò verso i luoghi del martirio della Santa per poi sfociare in mare.
Ma c’è anche una leggenda popolare molto particolare che lega Sant’Agata all’Imperatore Federico II di Svevia e a una misteriosa scritta sul portale sinistro della cattedrale di Catania, ancora oggi perfettamente leggibile.
NOPAQUIE
Si narra che quando i catanesi nel 1232 si ribellarono a Federico II questi decise di punirli ordinando di distruggere Catania e di uccidere tutti i suoi abitanti.
I cittadini come ultimo desiderio, prima di morire, chiesero di poter ascoltare la Messa in Cattedrale per vedere un’ultima volta la loro santa protettrice
Federico II acconsentì ma anche lui entrò in chiesa, però quando aprì il libro della funzione della messa al suo interno vi trovò un foglietto con su scritto: NOPAQUIE
Incuriosito chiese spiegazioni ma nessuno dei presenti seppe dargliela fino a che si fece avanti un anziano monaco benedettino che gli chiarì che la parola non era altro che un acronimo delle parole latine:
NON OFFENDERE PATRIAM AGATHAE QUIA ULTRIX INIURIARUM EST
Non offendere la patria di Sant’Agata poiché essa vendica le offese
Federico II impensierito da quel segno divino, desistette dalla sua vendetta e ritirò il suo ordine.
Si narra che, grazie all’intervento divino di Agata, Federico II graziò i cittadini catanesi e che poi fece costruire il Castello Ursino dove ancora oggi è visibile sulla facciata principale un’icona marmorea che rappresenta l’Aquila sveva che strozza l’agnello catanese.
Invece i catanesi per ringraziare la loro Santa Protettrice, fecero incidere questo acronimo misterioso sulla facciata della loro amata Cattedrale.
La vita di Sant’Agata è così radicata nella città di Catania che anche i dolcetti tradizionali che si mangiano nei giorni di festa sono strettamente legati ad antiche leggende popolari come quella delle famosissime olivette di Sant’Agata.
Le olivette, questi deliziosi dolcetti di farina di mandorle e zucchero, di colore verde e a forma di olive sono legate a un racconto catanese molto diffuso tra i fedeli.
Si narra che mentre Agata era prigioniera, stesa a terra di giorno sotto il calore implacabile del sole e la notte in balia dei venti freddi, riusciva a intravedere attraverso l’unica finestra della cella un albero di olivo.
Un albero oramai vecchio e logoro senza più né foglie né frutti, ma che, all’improvviso, impietosito dalle sofferenze della giovane fanciulla, stese i suoi rami rinsecchiti attraverso la finestra e li ricoprì di foglie e di frutti, per ripararla dalle intemperie e per lenire la sua fame.
Da allora i catanesi iniziarono a produrre questi dolcetti verdi a forma di olivette in ricordo di quell’evento miracoloso.
Sono tante le leggende e i racconti popolari che ruotano intorno alla vita di Sant’Agata e, nei secoli, sono entrati a far parte del folklore della città di Catania e dei Catanesi e testimoniano il grande amore che da sempre unisce, come una catena indistruttibile, Sant’Agata e i suoi cittadini.