Un grande Alessandro Haber al Teatro Stabile
È andato in scena alla Sala Verga del Teatro Stabile di Catania, l’ultimo romanzo della trilogia di Italo Svevo, dopo “Una vita” e “La coscienza di Zeno”. Regia: Paolo Valerio; adattamento: Monica Codena e Paolo Valerio; scene e costumi: Marta Crisolini Malatesta; luci: Gigi Saccomandi
musiche: Oragravity; video: Alessandro Papa; movimenti di scena: Monica Codena.
Con Alessandro Haber e Alberto Fasoli, Valentina Violo, Stefano Scandaletti, Ester Galazzi, Emanuele Fortunati, Francesco Godina, Meredith Airò Farulla, Caterina Benevoli, Chiara Pellegrin, Giovanni Schiavo.
Produzione Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Goldenart Production.
Nato in una famiglia ebraica della buona borghesia nella mitteleuropea Trieste, Aron Hector Schmitz (1861- 1928) solo alla morte del padre nel 1892 scelse emblematicamente lo pseudonimo (i primi lavori erano firmati Ettore Samigli) Italo Svevo, volendo sottolineare la sua formazione italo-germanica e la duplice anima della sua città che fino alla I guerra mondiale apparteneva all’impero austriaco.
Nonostante avesse studiato, per volontà del padre che voleva indirizzarlo all’attività commerciale, nella tedesca Baviera, già fin dall’adolescenza si sentì attratto dalla letteratura specie francese, non trascurando quella tedesca e italiana.
Fu sempre fiero della sua biculturalità – lui italofono ma cresciuto in ambiente tedesco – vissuta senza conflittualità bensì molto serenamente anche se in tempi controversi.
Da impiegato di banca, tra Vienna e Trieste, Il Nostro si accostava intanto al naturalismo francese estendendo i propri interessi anche alla filosofia; cominciava a scrivere articoli, racconti e i suoi primi due romanzi: ‘Una vita’ (1892) e ‘Senilità’ (1898)
Sono anni turbinosi quelli a cavallo tra Ottocento e Novecento.
La Belle époque, il trionfo della borghesia, caratterizzata da un grande sconvolgimento politico (partiti di massa, sindacalizzazione, emigrazione suffragette, caso Dreyfus) culturale (impressionismo, art nouveau, simbolismo…) scientifico e tecnologico, celebrato nell’Esposizione Universale di Parigi e dalla Tour Eiffel, stava per affondare insieme al ‘Titanic’, simbolo di un sogno infranto.
Si affacciavano le ‘avanguardie (espressionismo, astrattismo, futurismo, dadaismo, cubismo, surrealismo, crepuscolarismo) in opposizione al banale, al comune, alla tradizione.
Si affacciavano anche, in Europa, le premesse belliche che sarebbero esplose nella I guerra mondiale, chiudendo un’epoca. “Il bel mondo nell’ora del suo tramonto era bello a vedersi!” osservava Churchill.
Le teorie di Freud (1856-1939), la psicoanalisi, termine che il medico viennese adoperò per la prima volta nel 1896, entravano intanto in Italia introdotte dal medico Edoardo Weiss, formatosi a Vienna, attraverso Trieste, sua città natale.
Si intrecciano così in Svevo correnti di pensiero contraddittorie e difficilmente conciliabili.
In questo clima turbinoso, rovente e intellettualmente stimolante si pone il silenzio di Italo Svevo che solo dopo 25 anni dal suo secondo romanzo, ‘Senilità’, pubblica, nel 1923 ‘La coscienza di Zeno – cinque anni prima della sua morte -ispirandosi al romanzo psicologico il cui tema dominante è l’esplorazione dell’inconscio.
Sulla creazione del romanzo pesarono molto la conoscenza delle opere di Freud e la grande amicizia di Svevo con James Joyce, suo insegnante d’inglese, che prima di trasferirsi a Parigi lo incoraggiò, lo appoggiò, e insieme a Montale gli aprì la strada alla pubblicazione e, finalmente, al successo.
La psicanalisi è dominante: lo scrittore l’ha fatta sua e il regista la mette in scena.
Paolo Valerio costruisce uno spettacolo in cui Alessandro Haber, Italo diventato vecchio, si interfaccia, nel suo narrare, con il suo “se stesso” giovane in una lunga e disarticolata seduta psicanalitica, al di sopra del tempo e dello spazio.
Riporta alla memoria, in tal modo, problematiche ed episodi del suo passato alla ricerca di una soluzione della sua ‘malattia’, che altro non è – si rivelerà – che la condizione di crisi esistenziale di una società priva di valori.
Protagonista non è il personaggio ma la coscienza che si costruisce attraverso il ricordo.
C’è però anche il rifiuto della psicoanalisi come terapia salvifica: «La salute non analizza se stessa e neppure si guarda allo specchio. Solo noi malati sappiamo qualche cosa di noi stessi… la vita è sempre mortale. Non sopporta cure».
E così senza un ordine né cronologico né di valori si susseguono i ‘problemi’ del paziente Zeno Cosini: il vizio del fumo; la morte del padre; il matrimonio; la moglie e l’amante; la storia di un’associazione commerciale; la Psico-analisi con la soluzione che “la capacità di convivere con la propria malattia è come una persuasione di salute”.
I protagonisti dei romanzi di Svevo sono dei vinti, vittime di una loro indefinibile malattia composta da immobilismo e accidia; degli antieroi che non sanno vivere come, e con, gli altri ma – qui sta la differenza – sono consapevoli del proprio fallimento.
Il protagonista è un abulico che tenta invano di liberarsi dal torpore e dall’inerzia.
La sua vita non è quella che fu effettivamente, ma quella rivissuta dal protagonista, intrecciata con le interpretazioni, consce e inconsce, del ‘vecchio’ Zeno.
Il personaggio si costruisce attraverso il suo ricordare tramite la tecnica di Joyce del ‘monologo interiore’.
Svevo è vicino anche a Pirandello nella convinzione che la sola salvezza per il singolo individuo sta nella consapevolezza delle menzogne e degli alibi con i quali maschera il suo agire attraverso l’autocoscienza e l’ironia.
In conclusione, Zeno è un vinto consapevole ma senza grandezza perché l’inettitudine esclude la lotta.
La storia e la società, come si deduce dall’ultima pagina del romanzo, potrebbero invece condurre alla catastrofe: «la vita attuale è inquinata alle radici […]. Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo […]. Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca a chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione alla sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma oramai, l’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe. Sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie ed ammalati. Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie».
Quanta tragica attualità…