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Il cibo è un nuovo dio?

Il cibo ha sempre avuto nella storia un grande ruolo sociale; la tavola rappresenta da sempre un importante momento di incontro per le famiglie, di convivialità tra gli amici e perfino un luogo di decisioni politiche (si pensi ad esempio ai grandi pranzi di stato dove vengono siglati accordi e rinsaldate alleanze).

È sul modo di concepire l’approccio al cibo che osserviamo invece i grandi cambiamenti della storia. Già Roland Barthes, in un noto saggio del 1961, “L’alimentazione contemporanea”, affermava che il cibo è “un sistema di comunicazione, un corpo di immagini, un protocollo di usi, di situazioni e di comportamenti”.

Nell’antichità le tavole dei ricchi erano banchetti superbi: cacciagione, spezie, miele, frutta e vino che scorreva a fiumi. Mangiare tanto era segno di benessere; i patrizi romani infatti, che di cibo se ne intendevano, chiamavano la loro sala da pranzo triclinium e usavano consumare i pasti semisdraiati per meglio godere delle prelibatezze della tavola. La gotta era storicamente chiamata “la malattia dei re” (o “la malattia dei ricchi”) in quanto associata proprio all’eccessivo consumo di carne e di bevande alcoliche. Una certa pinguedine era considerata sinonimo di bellezza e opulenza.

Le classi meno abbienti invece si nutrivano raramente di carne e i loro pasti erano a base cereali non raffinati, legumi e, in seguito alla scoperta dell’America, anche di patate e ortaggi.

Oggi le cose sembrano profondamente cambiate: se il cibo continua ad avere il suo ruolo conviviale e di appartenenza sociale, i significati che vengono dati alla tavola e agli alimenti sono del tutto diversi rispetto al passato.

E’ il mangiar poco che è diventato simbolo di distinzione sociale; le grandi abbuffate sono considerate roba per parvenu. Nei ristoranti stellati vengono serviti piatti in cui può capitare di vedere un singolo raviolo che svetta tra fiori e decorazioni; il cibo è diventato “un’esperienza”, non è necessario che nutra. Anche il vino è, com’è sempre stato, un segno di distinzione sociale. Oggi, nei ristoranti più raffinati, viene spesso servito con rituali complessi: dopo averlo versato nel calice del commensale che se ne intende, il bicchiere viene allontanato dal naso, appoggiato su una superficie piana, e fatto ruotare lentamente una volta in senso orario e una volta in senso anti-orario al fine di ossigenarlo ed esaltarne il gusto. Che poi molti presunti estimatori di vino siano davvero competenti, visto che un corso per diventare sommelier dura circa due anni, poco importa: un vino costoso e tutta la liturgia che ne accompagna il consumo, non mancano mai di sortire il loro effetto e di dare un’immagine chiara dello status economico di chi lo ha ordinato.

Un’altra rivoluzione alimentare dei nostri giorni riguarda la scelta, sempre per le classi più agiate, di cibi che in passato erano considerati poveri come legumi, farine e zuccheri non raffinati.

E’ piuttosto recente, ad esempio, la disputa relativa ai cosiddetti “grani antichi”. Negli ultimi anni infatti si è diffusa l’idea che i grani coltivati in Italia all’inizio del secolo scorso (come ad esempio la varietà di grano chiamato “Senatore Cappelli”) abbiano migliori qualità nutritive, siano più salubri in quanto non necessitano di diserbanti o concimi, e soprattutto aiutino a prevenire malattie come la celiachia. Per confutare questa ipotesi i ricercatori del Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) e delle università di Modena e Reggio Emilia e di Parma hanno portato avanti nel 2018 un’indagine sperimentale (poi pubblicata su Food research international). Dalla ricerca è emerso che i grani antichi contengono una maggiore quantità di peptidi (frammenti di proteine) scatenanti la celiachia rispetto ai moderni e devono quindi essere assolutamente esclusi dalla dieta dei celiaci. “Sebbene l’indagine sia stata condotta su un numero limitato di genotipi – afferma Donatella Ficco coordinatore del team CREA – rappresenta un importante contributo di conoscenza su un argomento molto dibattuto sul quale il consumatore fa fatica a distinguere la moda dalla scienza e in cui spesso la disinformazione regna sovrana a danno del portafoglio e della salute”. Del 2023 è invece il saggio del prof. Luigi Cattivelli, direttore del centro di ricerca genomica e bioinformatica del CREA, dal titolo: Pane nostro. Grani antichi, farine e altre bugie; Cattivelli non solo afferma che i cosiddetti grani antichi non sono neanche presenti nel registro nazionale dei grani, ma sottolinea che la stessa definizione, “antichi”, è di per sé fuorviante, visto che noi tendiamo generalmente ad attribuire al termine antico un significato positivo. Sarebbe più corretto forse parlare di “grani vecchi”.

Come sostengono Bressanini e Mautino nel volume Contro natura se negli anni ’50 si raccomandava ai bambini di mangiare la “pastina glutinata”, oggi scrivere su un prodotto “con aggiunta di glutine” dal punto di vista del marketing sarebbe come scrivere “con veleno aggiunto.

C’è poi il mercato del cibo biologico che, se sicuramente produce per l’organismo una minore ingerenza di pesticidi, non è però del tutto esente da controindicazioni: infatti alcune sostanze naturali o di origine naturale utilizzate in agricoltura biologica possono comunque rivelarsi problematiche per la salute e l’ambiente. L’Europa ha stilato una lista di 77 sostanze autorizzate nel biologico e “candidate alla sostituzione”. Ciò significa che questi composti sono particolarmente preoccupanti per la salute dell’uomo o per l’ambiente, ma restano autorizzati in attesa di trovare alternative considerate valide dalle autorità.  Inoltre non è sempre facile per il consumatore medio comprendere se ciò che viene spacciato e venduto come biologico lo sia davvero(come si fa a sapere ad esempio se un terreno dove si pratica un’agricoltura biologica non confina con un altro, dove invece si usano concimi chimici?). L’unica certezza che abbiamo è che il biologico è costoso e quindi anch’esso appannaggio delle classi sociali medio-alte. La salute è troppo spesso un privilegio.

Infine c’è il settore sempre più ampio dei vegetariani e dei vegani: persone che scelgono di non mangiare carne e pesce o anche alimenti di origine animale. Questa scelta di solito si estende anche alla vita quotidiana quindi all’abbigliamento (niente lana, seta e pelle) e agli stili di vita (si cerca, per esempio, di impattare il meno possibile sull’ambiente). Chi segue uno stile di vita vegano, poi, cerca di scegliere anche cosmetici e prodotti per la cura della casa che non siano derivati dagli animali o che contengano ingredienti che lo siano. Alla filosofia vegana si collega anche il tema dello zero waste, compresa la tendenza a non usare prodotti monouso in plastica, scegliere fibre naturali per i vestiti e la biancheria della casa.  Si tratta di solito di una riflessione etica ponderata e ragionata, ma non pochi sono i casi in cui le cene vegane (soprattutto se saltuarie e sporadiche) riflettono soltanto l’ennesima moda radical chic, visto che mangiare tofu o seitan di tanto in tanto mette a posto la coscienza e ci fa credere di essere più buoni e salvare il pianeta.

Sul fronte dei giovanissimi invece si assiste, per converso, all’esplosione dello junk food: hamburger e patatine trionfano, ma vanno per la maggiore anche kebab e sushi, che dei prodotti originali e dei paesi dove sono nati mantengono solo il nome (visto che in Giappone non è previsto l’uso del formaggio spalmabile e nei paesi arabi la carne di montone non è condita con il ketchup); poi abbondano le birre, i cocktail e i superalcolici; tanto che oggi una delle piaghe dei giovani adolescenti è sicuramente l’alcolismo.

Tutto questo reso più agevole dal fatto che molti ragazzi non sembra abbiano problemi di soldi: hanno carte prepagate e spendere 30-40 euro il sabato sera pare non sia un problema. I genitori, evidentemente, sono diventati più generosi.

Quel che certo accomuna giovani e adulti è che se si esce (a volte i social possono bastare) si va a mangiare; i tempi dei giochi da tavolo, delle chitarre suonate sui muretti, dei cinema e dei teatri sono ormai tramontati (o comunque rimasti appannaggio di pochi).

Ci si incontra per mangiare e per spendere nei grandi centri commerciali.

L’eccessiva attenzione rivolta al cibo porta poi come conseguenza diretta l’aumento dei disturbi alimentari: anoressia e bulimia sono cresciuti in modo esponenziale negli ultimi anni, con una riduzione notevole anche dell’età di insorgenza di queste malattie

È diventato inoltre estremamente importante che i piatti serviti siano “instagrammabili”, debbano cioè avere una presentazione molto curata ed essere glamour. Sui social le foto che riguardano il cibo, insieme a quelle dei cuccioli di animali domestici, ottengono moltissimi like. Il cibo, più bello che buono, è diventato quindi una moda e uno strumento di stratificazione economica; ma soprattutto è diventato un importante distrattore sociale: mentre il mondo è diviso dalle guerre e sembra che nessuna regola etica sia più valida, né in politica né in economia, la gente si diletta a pubblicare la foto del proprio apericena.

Dovremmo forse liberarci di questa nuova idolatria evitando sprechi e manipolazioni; bisognerebbe mangiare in modo sano ma dando agli alimenti il giusto valore (anche economico); la tavola dovrebbe tornare ad essere il luogo della convivialità, intesa come condivisione e ascolto, più che mera ostentazione della propria affermazione sociale e sfoggio di ricchezza.

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