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La tirannia del merito sta logorando la democrazia?

Nella società di oggi, fin troppo abituata a raccomandazioni, sotterfugi e scalate al potere,  la meritocrazia viene spesso invocata, quale una possibile soluzione,  per superare storture e per avviare una positiva rinascita: in una società meritocratica – si afferma – i migliori si faranno strada, mentre tutti gli altri resteranno indietro, realizzando  una equa ascesa in cui agli sforzi spesi corrisponderanno dei risultati.

Ma è davvero così?

Alla domanda recentemente hanno tentato di rispondere sia Salvatore Cingari, con il suo libro Meritocrazia, sia Micheal Sandel con il suo saggio La tirannia del merito.

Il volume di Salvatore Cingari ricostruisce la storia del concetto di meritocrazia dal momento in cui fu coniata la parola, cioè dalla seconda metà degli anni cinquanta del Novecento, fino ai giorni nostri, guardando sia alle elaborazioni teoriche della filosofia e del pensiero sociale (da Young a Hayek, passando per Arendt, Rawls,  Bourdieu, ma anche per Sen, Lasch, Sennet, Giddens) sia al linguaggio politico (da Martelli a Blair e Renzi) e al diffuso senso comune. Cingari cerca di dimostrare come il termine nasca con un significato negativo, “a identificare una prefigurazione distopica”, che continuerà a caratterizzare il suo utilizzo nel vecchio continente per alcuni decenni. Negli Stati Uniti, invece, il lemma assume  fin dal principio un significato  positivo, all’interno di un’ideologia tecnocratica proiettata nella nuova civiltà postindustriale. È solo all’inizio del nuovo millennio che, con la “terza via”, l’ideologia meritocratica diventa parte dei valori della cultura politica progressista europea. La meritocrazia diventa perciò “una parola-chiave del neoliberalismo, giustificando le crescenti diseguaglianze dovute ai processi di finanziarizzazione, delocalizzazione e privatizzazione. Anche dopo la crisi del 2008, la meritocrazia resta uno snodo fondamentale della narrazione neopopulista, a documentare il profondo legame fra quest’ultima e il neoliberalismo”.

 Anche l’economista americano Micheal Sandel, nel saggio La tirannia del merito, prova a sfatare il mito della meritocrazia sia mostrandone tutti i limiti, sia mettendo in rilievo il modo in cui la retorica dell’ascesa è stata strumentalizzata dalla politica. La tesi di fondo del libro è che questa mentalità, lungi dal condurre a una società illuminata più giusta per tutti, si basi sul falso presupposto che basterebbe impegnarsi e dare il massimo per ottenere i risultati. Ma non è sempre così, perché esistono fattori sociali, economici e culturali che giocano contro di noi e che rendono l’impegno non sufficiente e, in alcuni casi, inutile.

In un mondo in cui “l’uguaglianza delle opportunità non è che una chimera, il mito della meritocrazia – secondo Sandel – finisce per fare il gioco del populismo che lo riduce a semplice slogan”.  E un’idea apparentemente innocua e liberale, come quella del mito della meritocrazia, rischia in realtà di uccidere la democrazia, in Europa e altrove.

In entrambe le sponde dell’Atlantico, c’è un’idea ormai molto radicata: chi lavora sodo e gioca secondo le regole del libero mercato avrà successo e sarà capace di elevarsi fino a raggiungere il massimo e a salire i gradini della scala sociale. È una retorica dell’ascesa che anche il Partito democratico americano e i partiti della sinistra moderata europea hanno scelto come soluzione ai problemi della globalizzazione, primo fra tutti la disuguaglianza. La familiarità di queste posizioni con la cultura trumpiana, ma anche con quella della Meloni e della sua rappresentazione come un underdog è lampante Se tutti hanno le stesse opportunità, allora chi emergerà grazie ai propri sforzi o alle proprie capacità se lo sarà meritato. Se invece non riuscirà a emergere, la responsabilità sarà soltanto sua. È questo, per Sandel, il lato oscuro dell’età del merito.

Siamo abituati a pensare che una società meritocratica sia una società giusta. Ma dietro all’idea del merito si nasconde – scrive Sandel – un inganno. Senza pari opportunità, vincerà sempre chi ha più mezzi. Chi perde, invece, potrà incolpare solo sé stesso.
E perché tutti, a destra e a sinistra, non fanno che invocarla come soluzione di tutti i mali? Forse perché è in nome della meritocrazia che vengono cancellati i diritti, smantellato lo stato sociale e limitato il dissenso? La frottola della meritocrazia, infatti, trasforma le diseguaglianze sociali in colpe del singolo, che non si è impegnato abbastanza, non ha lavorato sodo ed è evidentemente un mangia pane a tradimento. Anche la promessa smithiana che tutti saremmo diventati ricchi e che solo chi non voleva lavorare restava povero ha trasformata la diseguaglianza in una colpa dell’individuo. Questo perché le differenze nelle condizioni di partenza sono per i neoliberisti  superabili con qualche sforzo e un po’ di sacrifici. Basta avere dei meriti per emergere  e per scalare la gerarchia sociale.

E allora, in una società nella quale l’uguaglianza delle opportunità rimarrà sempre una chimera e l’idea  di giustizia di diritto meritocratico è agitata dal potere, per giustificare le diseguaglianze, cos’è la meritocrazia? Secondo Cingari è una bufala e secondo Sandel una tirannia del merito che sta logorando la democrazia in America come anche in Europa.

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