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Giulio Scivoletto: “Una guerra con la lingua”

Durante l’ultima edizione di Cataniabook-festival, svoltasi nel capoluogo etneo dal 27 al 29 settembre, è stato presentato il libro di Giulio Scivoletto “Una guerra con la lingua”. Il volume contiene la trascrizione e l’analisi dell’epistolario della famiglia Di Raimondo che, dal punto sociolinguistico, rappresenta “un tesoro”.

La raccolta di lettere costituisce infatti un materiale estremamente prezioso, non solo per via delle dimensioni, ma soprattutto per le sue caratteristiche socio-geografiche. Raccogliendo più di duecento testi, firmati da oltre quindici autori e autrici, il carteggio consente l’analisi di un materiale corposo e articolato, da cui emerge una notevole quantità e variabilità di fenomeni linguistici. Questo materiale è molto significativo anche per via della penuria di scritture popolari della Grande Guerra di area meridionale e in particolare siciliana.

Quando l’Italia entra in guerra nel 1915 buona parte della popolazione italiana è ancora analfabeta ed è proprio la distanza, alimentata dalla guerra, a costringere contadini e masse popolari a cimentarsi con la scrittura: «durante la Grande Guerra si profilò per la prima volta un livello linguistico popolare e unitario, ricco di regionalismi ma non regionale»; si assiste quindi al «primo costituirsi dell’italiano popolare unitario». Incontrandosi milioni di italiani di provenienza diversa e cimentandosi nella scrittura epistolare, avviene un momento unico, per intensità e dimensioni, di italianizzazione di massa.

L’Italia del nord, d’altronde, non fu soltanto il territorio in cui si consumò effettivamente il conflitto, ma anche il luogo di origine della metà dei soldati arruolati; la maggioranza delle testimonianze scritte su cui si sono condotti studi e ricerche è pertanto di provenienza settentrionale.

Il volume presenta la trascrizione integrale di questi testi accompagnata da una approfondita analisi sociolinguistica dell’italiano popolare; una varietà sociale della lingua nazionale che è propria di parlanti e scriventi con scarsa istruzione e con il dialetto come madrelingua.

Il titolo di questo libro suggerisce che la scrittura e l’italiano non sono, per la famiglia Di Raimondo, il nemico, ma piuttosto un’arma necessaria per comunicare; uno strumento fondamentale nell’esperienza della guerra, perché permette di mantenere il contatto e le relazioni tra chi era al fronte e chi era rimasto a casa. Scrivere serve in primo luogo a comunicare la propria presenza, ovvero la sopravvivenza, da parte dei soldati, e il fedele sostegno, da parte del cosiddetto fronte interno. Le cartoline servono poi a rinsaldare le reti sociali e interpersonali, per lo scambio di informazioni e indicazioni su affari economici e questioni familiari.

Il bisogno di scrittura riflette l’esigenza di elaborare e superare il trauma della guerra, come evento separatore, che interrompe la continuità di un mondo di affetti e lavoro.

Gli effetti della censura sono poi rafforzati da forme di autocensura. I soldati, infatti, sono spesso reticenti e persino rassicuranti, per risparmiare alle famiglie la certezza, inutile e solo dolorosa, delle pessime condizioni della vita al fronte: “state allegri e contenti, che la guerra non è niente”.

Anche per gli storici la corrispondenza dei Di Raimondo rappresenta un tesoretto poiché negli ultimi decenni un profondo rinnovamento ha interessato gli studi sulla Grande Guerra e, nei lavori più recenti, sono stati approfonditi aspetti fino ad allora quasi completamente trascurati. Sulla scia delle indagini di Paul Fussel (La grande guerra e la memoria moderna) e di Eric J. Leed (Terra di nessuno) che, utilizzando fonti letterarie, narrative, memorialistiche, hanno esaminato il rapporto tra intellettuali e guerra, sono stati pubblicati alcuni lavori nei quali è stato dedicato un certo spazio all’analisi del ruolo esercitato dalla cultura e dalla mentalità nello spingere l’Europa e, in un secondo momento, l’Italia alla guerra. Basti pensare agli studi di Mario Isnenghi sul mito della Grande Guerra, di Antonio Traverso sugli intellettuali europei, di Nicola Labanca su forze armate e società o di Angelo Ventrone sulla seduzione totalitaria, per citarne solo alcuni. Individuando nella guerra un passaggio cruciale della storia nazionale sia nel senso della rottura con il passato, sia nel senso della determinazione degli avvenimenti successivi e della deriva autoritaria e totalitaria, la storiografia italiana è riuscita a spostare progressivamente l’attenzione dal piano diplomatico e militare verso l’esame delle società in guerra e verso le narrazioni e le ‘rappresentazioni’ elaborate dai contemporanei e ha contribuito a mettere in primo piano gli aspetti più drammatici della guerra totale, l’emergere dei caratteri peggiori e delle maggiori contraddizioni della nazione, l’instaurarsi di una temperie culturale di odio, l’inarrestabile crisi della democrazia, la fragilità del sistema parlamentare.

All’interno di questo filone si sono inserite le ricerche di Antonio Gibelli sulla Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, di Fabio Caffarena sulle scritture del quotidiano, di Giovanna Procacci sui soldati e sui prigionieri italiani. In prossimità del primo centenario della Grande Guerra, sono comparse sia una serie di narrazioni sull’onda dei ricordi e sull’eco delle battaglie, sia alcune riflessioni storico-economiche e sono stati dedicati, da parte di alcune riviste, quali «Ricerche storiche»e «Il pensiero economico italiano», interi numeri monografici sulla «GrandeGuerra» e «sui mille volti» della tragica conflagrazione.

Partendo dall’analisi dei diari e delle lettere dal fronte, una parte della storiografia ha iniziato a studiare le guerre mondiali, non solo e non più attraverso documenti ufficiali e dal punto di vista degli statisti, ma attraverso le narrazioni dei soldati, la corrispondenza con le loro famiglie  ricostruendo l’esperienza vissuta, i processi mentali e il loro immaginario.

Ed ecco che la storia di una singola famiglia, di un singolo individuo, di un soldato semplice o di un prigioniero diventa più interessante di quella di una massa anonima; assai spesso, infatti, «comprendiamo più facilmente le vicende di un intero popolo attraverso quella di anche uno solo dei suoi membri».

D’altronde già le memorie, raccolte in “Un anno sull’Altipiano” di Emilio Lussu, parlavano di “una guerra grondante di sangue, di fango, di sofferenze umane, a una guerra che trasforma contadini provenienti datutte le regioni d’Italia in soldati che impugnano fucili al posto della vanga, che eseguono gli ordini di generali e comandanti ottusi e inesperti che li considerano carne da macello”.

Privilegiare testimonianze e diari non significa, però, passare dalla macrostoria allo micro narrazione, significa invece offrire un giacimento di informazioni su realtà altrimenti invisibili, fornire altri elementi e consentire a ciascun lettore di riflettere, di trarre le proprie conclusioni. Peraltro, resoconti e diari contengono accanto alla cronaca quotidiana, interessanti e lucide informazioni sulla drammaticità della guerra, «sull’enorme svalutazione della vita umana corporea» sul desiderio di avere notizie da casa, sulla sofferenza per la lontananza dagli affetti più cari, e sulla necessità di raggiungere la pace.

Gli epistolari forniscono inoltre utili informazioni sui diversi ruoli familiari; in quello dei Di Raimondo notiamo ad esempio che la figura della madre appare silente e muta e non è mai la persona alla quale la lettera è indirizzata: mostra la sua preoccupazione inviando ai figli immaginette della madonna, ma le sue parole e il suo strazio nei testi non compaiono; viene pure lasciata all’oscuro dei fatti più gravi e preoccupanti e quindi considerata l’anello debole della famiglia (“Abbiamo ricevuto la tua cartolina dall’ospedale, ma non ci hai voluto dire che sei malato. La mamma non sa niente che sei ferito, e finché ci riescirà continueremo a nasconderglielo per non farle sentire un dolore”); il che ci riporta immediatamente alla visione fortemente patriarcale della famiglia siciliana, nella quale la donna raramente aveva voce in capitolo. All’inizio dell’epistolario, per converso, forte appare il ruolo del padre Giorgio, che dispensa consigli e raccomandazioni, che ricorda ai figli i principi morali, l’obbligo di difendere la patria e li tiene costantemente informati sugli affari di famiglia. Nel 1915 le lettere della famiglia Di Raimondo, soprattutto nelle parole del padre, riflettono anch’esse il furore interventista che si era abbattuto sull’Italia dopo le “radiose giornate di maggio”.

Con il trascorrere degli anni e il perdurare della guerra, però, il registro linguistico muta: se nelle prime lettere il tono è rassicurante e pacato, via via che le vicende belliche si intensificano, i racconti diventano più tesi e allarmanti: emergono con forza le preoccupazioni economiche dei fratelli circa le sorti dei raccolti e degli animali, ma anche informazioni relative alle ferite di guerra (“Carissimo fratello abbiamo avuto la notizia della tua ferita, che spero sia cosa di poco e presto guaribile”) e al bisogno di medicine (“Caro patre, vi preco di mandaremi ditro la busta una pochetino di quella miricina de pulice”).

Già nel 1916 l’entusiasmo iniziale appare svanito e si comincia ad invocare la pace (“Così desiderassi anche io, mio fratello, che sia fatta la pace e la […] non ci la dovremo […] al nostro Dio che si […] la pace che […] un mondo intiero”). Comprensibili appaiono i timori dei fratelli, tutti già al fronte, quando vengono a sapere che anche il più piccolo di loro sta per essere arruolato (“Caro padri, sono molto dispiaciuto perché mio fratello passerà la visita”).

Ormai la guerra è diventata di logoramento e a tutti sono noti gli orrori delle trincee.

Dal 1917 al 1918 il numero delle lettere diminuisce, riflettendo probabilmente l’aggravarsi della situazione bellica (caratterizzata tra l’altro dalla disfatta di Caporetto) e quindi l’esigenza dei soldati di concentrarsi sulla propria sopravvivenza materiale al fronte e nei campi di prigionia. Indicativa in tal senso è la lettera inviata da Angelo al padre il 21 agosto del 1917, nella quale il soldato si lamenta della mancata licenza perché “dicono che le siceliane sidano diserture”. Il 10 maggio 1919, infine, la lettera che riporta la frase “Basta, spiramo che presto ni congedasino. Basta, non avendo che dirite, ti ariceve le mie salute e bace e stret”.

“Nel lessico, così come agli altri livelli del sistema, – scrive Scivoletto, il dialetto non è una risorsa adoperata intenzionalmente, ma piuttosto si impone agli scriventi nonostante la volontà di aderire allo standard. Nell’epistolografia popolare, codice unico della scrittura è l’italiano, verso la cui norma si tende con grande convinzione anche se con esiti incerti. Per converso, il dialetto si configura come il grande escluso nell’ordine del discorso. Il siciliano, pertanto, emerge come il sostrato che, sebbene i Di Raimondo si sforzino di allontanarsene  affiora in modo massiccio e sistematico a causa dei forti limiti nella competenza dell’italiano”.

Detta in modo assai semplice, il siciliano emerge, essenzialmente e con grande frequenza, in forme lessicali che vengono adattate fonomorfologicamente al sistema dell’italiano. “Si considerino i casi di crivo e cernuto. Nel primo, il morfema lessicale siciliano (criv-) è adattato al sistema italiano tramite il morfema flessivo (-o). Nel secondo, invece, i sistemi si intrecciano, ed è più dubbia una distinzione tra morfema lessicale italiano e morfema grammaticale dialettale: la radice (cern-)”.

La corrispondenza Di Raimondo testimonia anche “lo sviluppo di un meta-discorso sull’apprendimento della scrittura, un’impresa individuale e collettiva, che unisce la famiglia e la inserisce nel grande processo di italianizzazione delle masse popolari che definisce l’Italia postunitaria. Il discorso sulla scrittura evidenzia inoltre il desiderio, che sorge al termine dell’esperienza bellica, di fare ritorno al mondo dell’oralità”.  

La corrispondenza Di Raimondo offre dunque un esempio di come la scrittura popolare, seppur lontana dai modelli colti, non si riduca interamente a una testualità del parlato.

In fase di ricezione, le lettere e cartoline erano sottoposte, di consueto, alla pratica di lettura a voce alta, semipubblica. Nell’epistolografia bellica popolare, dunque, l’esperienza della scrittura si intreccia con la dimensione orale. “Complessivamente, possiamo attribuire sei valori di distanza, e quattro di vicinanza. La comunicazione può essere definita privata, anche se sarebbe meglio dire semi-privata, per via delle pratiche di scrittura che coinvolgevano scrivani e soprattutto per quelle di lettura semipubblica dovute al diffuso analfabetismo. L’interlocutore è familiare, perché i Di Raimondo scrivono solo ad amici e parenti. L’emozionalità non è affatto assente, e anzi è a tratti forte, ma di regola è trattenuta, per via della censura e dell’autocensura imposte dall’esperienza bellica. Tale esperienza comporta comunque un forte ancoraggio al contesto della situazione”.

Sicuramente non era semplice la vita dei Di Raimondo, dialettofoni semi-analfabeti impegnati a scrivere e leggere in una lingua, l’italiano, appena conosciuta. La loro – scrive Scivoletto – non era una scelta, bensì un’inevitabile condizione di continue trasgressioni. In definitiva, però, la comunicazione funziona, malgrado la scarsa padronanza del codice perché “il linguaggio umano si presenta come un sistema adattativo complesso, che si modella in rapporto ai bisogni degli utenti ed è in grado di cambiare in seguito all’esperienza e di funzionare in contesti diversi”.

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