La verità e la menzogna
Note a margine de L’Atelier nella Roccia, prima edizione della residenza d’artista nel castello di Sperlinga, ideata da Claudio Mogliotti, imprenditore e promotore culturale, e Giuseppe Altomare, artista e docente dell’Accademia di Belle Arti di Catania.
La roccia verticale scoscesa, a strapiombo sulle case del borgo di Sperlinga, è una presenza, monumentale e indiscutibile. Sovrasta il paesaggio di campi e di boschi circostante, e come una verità campeggia nel centro della Sicilia: un enigma naturale che da millenni sfida gli sguardi, il linguaggio, le interpretazioni delle civiltà che si sono succedute in questa terra siciliana.
Le parole, innanzitutto. Sperlinga, semplicemente, significa “Spelunca”, la grotta: la grotta scavata nella roccia del suo castello. Una grotta che è stata il primo segno impresso in quel luogo dalla mano dell’uomo. Ogni civiltà infatti ha tracciato il proprio segno, la propria interpretazione, sulla verità di quella roccia: i gradini e le cavità sepolcrali, scavate per segnare un luogo di culto consacrato ai morti, affinché si avvicinasse il loro cammino di anime alle dimore degli dei; i merli di un castello normanno, edificato per segnalare la formidabile fortezza a guardia delle tre valli che dividono la Sicilia; poi, un lungo sonno, terminate le guerre di conquista tra Angioini e Aragonesi, durato secoli, in cui i segni del sacro e della guerra sono stati confusi e iscritti nelle nuove abitazioni civili, travisate in nuovi utilizzi, in nuovi spazi. E così, il grembo di alcune piccole tombe dell’età del bronzo è divenuto un forno dove cuocere il pane, oppure la nicchia della cappella settecentesca, in cui ospitare le statue dei santi cristiani.
Ma ancora oggi è possibile rileggere quella verità? In che modo è possibile immaginare ancora un segno nuovo per dare significato a quel luogo? Oggi, nel tempo in cui fedi e ideali politici sembrano aver perduto tutta l’energia del passato?
Oggi, questo sguardo può essere affidato soltanto all’arte.
Lo sperone di roccia di pietra arenaria e i suoi segni confusi sono caduti sotto gli occhi degli artisti della Tavola di Migliandolo, l’associazione creata da Claudio Mogliotti, grazie ad un progetto di residenza d’artista nato dalla sua sensibilità e intuizione. Egli ha proposto a pittori provenienti da diverse parti del mondo di confrontarsi con la potenza evocativa di questo luogo, con la sua memoria, con la sua domanda. Ed è stato straordinario poter vedere come le ricerche personali di coloro che hanno deciso di dipingere nel castello, esperienze nate in contesti lontanissimi, si sia incontrata e si sia integrata miracolosamente con il linguaggio di questo luogo.
Claudio è sempre insieme ai suoi artisti: vigile e discreto, attento alle esigenze e alle curiosità di chiunque gli si avvicini, nella grande grotta centrale del castello. Ecco dietro di lui le tele di Giuseppe Altomare, Pippo per tutti i suoi amici di Sperlinga: tele dai colori intensi, sofferti, dai segni potenti evocati da un passato ancestrale. Vicino alla sua poetica, i lavori di Salvatore Dominelli, docente dell’Accademia di Roma, anch’egli rivolto alla ricerca dell’essenzialità del segno.
Ogni artista ha scelto uno dei tanti ambienti in cui si rifrange l’identità del castello, per ritrovare lì, inverato, il proprio percorso artistico. La grande tela di Onorio Bravi, che si pone all’ingresso delle sale baronali, restituisce la sagoma del castello, in una luce accesa e apocalittica, come se egli avesse voluto proiettare in un futuro lontanissimo la presenza della fortezza. L’immersione nella natura del luogo e nei suoi segni appare nei lavori dello spagnolo Ricardo Castiglia: nelle sue tele le forme degli spazi sprofondano nella trama cromatica terrestre, dove l’artista stesso, ridotto a sagoma, ombra, traccia si perde sotto le scaglie cromatiche della pietra. Non soltanto la realtà organica, ma anche quella umana e sociale appare nei lavori degli artisti: così, Gaetano Zampogna riproduce sulle sue tele grezze i volti degli abitanti del paese, come se fossero gli attori dell’eterno palcoscenico
delle piazze siciliane. Le cavità più profonde del castello sono i luoghi scelti dalla catanese Federica Ricca e da Gizem Safak, giovanissima pittrice proveniente dalla Turchia: in esse, sulle pareti della roccia percorse da segni ferrosi e da forme circolari, nelle volte protettrici e ripiegate su se stesse come volute di un’enorme chiocciola, esse ritrovano specchiati i contrassegni della loro ricerca pittorica.
Appoggiate ad una parete segnata da una minuziosa screpolatura, le tele di Ilaria Racca, artista romana, tele bianche sulle quali si stratificano segni, frammenti di campiture cromatiche, sembrano porsi in continuità con quelle pareti naturali e interpretare con la loro presenza il luogo. “Ciò che mi interessa è il rapporto tra verità e menzogna nell’arte”, afferma Ilaria. E sembrano queste le parole giuste per esprimere il senso di ciò che hanno realizzato i pittori nei loro atelier nella roccia: la relazione tra la verità di una tela bianca e la “menzogna” dei mille segni che vi si sovrappongono, come le forme delle tele dello spagnolo Rafa Lopez, esuberanti e mediterranee, o come le parole incise in una lapide, prese a soggetto dall’artista finlandese Marja-Luma Valkola; la relazione tra la verità inamovibile del grande monolite su cui sorge il castello e i segni della storia e delle civiltà, le “menzogne” del tempo.
Ma quanto ovvia e banale sarebbe la verità di un dato naturale o di una superficie bianca, se non fosse ricoperta dalla menzogna necessaria dell’arte, dall’incessante tentativo umano di approssimarsi a qualcosa, dall’incessante tentativo umano di scommettere su un senso delle cose.