“La mite” di Dostoevskij al Piccolo Teatro della Città
È andato in scena al Piccolo Teatro della Città di Catania lo spettacolo “La mite” di Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Regia di Valeria La Bua e Davide A. Toscano. Interpreti: Giovanni Arezzo e Alessandra Pandolfini.
La pièce, il disperato monologo di un uomo con se stesso davanti all’amore malato e alla morte, (un ” lacerante monologo interiore di un uomo permaloso e superbo” lo definisce A. M. Ripellino) risale al 1876, a pochi anni prima che Dostoevskij, uno degli autori più importanti e profondi della letteratura russa e mondiale, concludesse la sua complessa e turbinosa vita.
“L’uomo è un mistero. Un mistero che bisogna risolvere, e se trascorrerai tutta la vita cercando di risolverlo, non dire che hai perso tempo; io studio questo mistero perché voglio essere un uomo” scriveva Fëdor Dostoevskij, appena diciassettenne, al fratello Michail.
“Vivere senza Dio è un rompicapo e un tormento. L’uomo non può vivere senza inginocchiarsi davanti a qualcosa. Se l’uomo rifiuta Dio, si inginocchia davanti ad un idolo. Siamo tutti idolatri, non atei”.
L’amore e la solidarietà evangelicamente superano l’egoismo -dirà in seguito l’autore per bocca del suo ‘uomo ridicolo’- aldilà della presunzione della scienza che ‘tenta di spiegare la vita’ mentre questa va semplicemente vissuta sulle orme di Cristo e dell’amore che ha insegnato al mondo.
E questo non è solo il punto di partenza ma anche la conclusione alla quale giunge Dostoevskij dopo quella cesura che fu il suo arresto e la condanna a morte in seguito alla falsa accusa di associazione sovversiva anti zarista.
La beffa della fucilazione sospesa -per un sadico scherzo di Nicola I?- davanti al plotone di esecuzione (“ci hanno fatto baciare la croce, hanno spezzato sopra la testa le spade e ci hanno fatto la toeletta del condannato”), i lavori forzati e la prigione in Siberia avrebbero cambiato la sua vita e il senso della sua arte.
Questa indelebile esperienza ispirerà, dieci anni dopo, ‘Memorie da una casa di morti’ (1861-62).
La netta condanna della pena di morte trasparirà dai suoi più noti romanzi:
“Vivere in qualunque modo, ma vivere!… Quale verità! Dio, che verità! È un vigliacco l’uomo!… Ed è un vigliacco chi per questo lo chiama vigliacco.” (‘Delitto e castigo’,1866).
“A chi sa di dover morire, gli ultimi cinque minuti di vita sembrano interminabili… In quel momento nulla è più penoso del pensiero incessante: “se potessi non morire…trasformerei ogni minuto in un secolo intero…terrei conto di ogni minuto, non ne sprecherei nessuno!”…il dolore principale, il più forte è sapere con certezza che, ecco, tra un’ora, poi tra dieci minuti, poi tra mezzo minuto, poi ora, subito, l’anima volerà via dal corpo, e non sarai più un uomo…Uccidere chi ha ucciso è, secondo me, un castigo non proporzionato al delitto… No, no, è inumana la pena, è selvaggia e non può né deve esser lecito applicarla all’uomo.” (‘L’idiota’, 1868-69).
Rientrato in Russia il Nostro ripristinava i suoi rapporti con l’intellighenzia conservatrice pietroburghese propagandando la sua ‘idea russa’, la necessità di recuperare le radici nazional-popolari contro le correnti occidentaliste e radicali.
Durante un viaggio in Europa si lascerà anche andare al vizio del gioco alla roulette (‘Il giocatore è del 1866):
“Anja -scriverà alla sua seconda moglie- cara, amica mia, moglie mia, perdonami, non chiamarmi mascalzone! Ho compiuto un misfatto, ho perso tutto… ieri ho ricevuto il denaro e ieri l’ho perso.”
Abbandonando il giovanile socialismo utopistico del Circolo di Petrasevskij, da progressista il nostro diventerà dunque un conservatore nazionalista, fervente ortodosso, slavofilo e antisemita, convinto della sua missione di portare il ‘messianismo’ russo in Europa:
“Sì -dirà nel discorso dell’8 gennaio 1880, l’anno prima della sua morte, in onore di Puškin- la vocazione dell’uomo russo è indubitabilmente europeistica, anzi ecumenica. Diventare un vero russo, significa forse soltanto essere fratello di ogni essere umano … il nostro destino è l’ecumenicità, ma non conquistata con la spada, ma con la forza della fratellanza…”.
Ma, in ogni caso, la peculiarità di Dostoevskij, che insieme a Tolstoj resta il più grande autore russo, consisterà pur sempre nella capacità di penetrare l’animo umano nelle pieghe più profonde della sofferenza, nell’abilità introspettiva con cui sviscera i sentimenti ed esplora il ‘sottosuolo del male’, nella sua filosofia: “La vera novità dello spirito dostoevskiano – afferma Arnold Hause – consiste nel fatto che in lui le idee hanno la stessa forza emotiva, lo stesso impeto passionale, anzi patologico, che per i romantici hanno il flusso ed il tumulto dei sentimenti”. Anche Nietzsche definirà il grande russo “l’unico psicologo da cui avrei qualcosa da imparare”.
Il romanzo breve ‘La mite’ veniva pubblicato per il ‘Diario di uno scrittore’ (1876-81) nel 1876, nell’ultimo decennio dunque della sua vita, dal nostro autore che tuttavia aveva cominciato a rifletterci già nel 1869, quando i maggiori romanzi avevano già visto la luce e il suo pensiero era giunto alla piena maturità.
È un racconto di grande spessore, un potente ‘flusso di coscienza’, definito dal critico Leonid Grossman: “una delle storie di disperazione più potenti nella letteratura universale”.
Il protagonista, magistralmente interpretato da Giovanni Arezzo, umiliato dalla vita, degradato e tacciato di viltà cerca vendetta nei confronti della società.
Il perverso meccanismo più o meno coscientemente scelto si nasconde nelle pieghe del matrimonio da lui voluto con una sedicenne povera e apparentemente ingenua per renderla totalmente sua, sottomessa e obbediente.
La moglie, una brava Alessandra Pandolfini che recita senza parole ma solo con i suoi grandi occhi azzurri e il linguaggio del corpo, non immagina cosa la aspetti e ama quell’uomo che l’ha scelta. Ma il marito, nella sua brama di possesso e assoggettamento, decide di comportarsi freddamente chiudendosi in un severo e ostinato silenzio e quasi evitando la donna, fino ad averne un disprezzo totale, nascosto dietro un’immagine amorevole e compassionevole.
Di fronte alla superbia, al crudele egoismo travestito da false attenzioni dell’uomo lei non riesce più ad amarlo; si ammala ottenendo le cure del marito, richieste di perdono e vani progetti di un futuro migliore.
Ma è troppo tardi, La ragazza, stringendo al petto un’immagine sacra, si suicida lanciandosi giù dalla finestra.
Lo spettatore apprende tutti i passaggi di questa tragica vicenda dal lunghissimo monologo, un soliloquio delirante e sconnesso dell’uomo davanti al cadavere della moglie morta, nel tentativo di ricomporre la realtà e comprendere le cause del suicidio:
“Perché questa donna è morta?… Oh, avremmo anche potuto intenderci. Nel corso dell’inverno ci eravamo soltanto disabituati l’uno all’altro, ma era forse impossibile abituarsi di nuovo? Perché, non avremmo potuto riavvicinarci e ricominciare una nuova vita? Io sono generoso, lei anche lo era: ecco qui il punto di incontro! Ancora qualche parola, ancora due giorni, non di più e lei avrebbe capito tutto”.
Ma finisce con il ripiegarsi ancora sul suo io ‘malato’, sulla sua inaccettabile e universale solitudine:
“Oh, destino fatale! Oh, natura! Gli uomini sono soli sulla terra – ecco la disgrazia!… Tutto è morto e dappertutto c’è morte. Solo gli uomini vivono, e intorno a loro regna il silenzio – questa è la terra! “Uomini, amatevi l’un l’altro” chi l’ha detto? Di chi è questo comandamento? Il pendolo batte insensibile e odioso. Sono le due di notte. Le sue scarpine stanno vicino al letto come se l’aspettassero… No, seriamente, quando domani la porteranno via, che sarà di me?”.
Gli applausi di un pubblico commosso sono stati il dovuto omaggio alla regia, agli interpreti e all’immortale ‘sentire’ di Fëdor Dostoevskij:
“La tragedia e la satira -a suo dire -sono sorelle e vanno di pari passo; tutte e due prese insieme si chiamano verità”.
Foto di Dino Stornello