“Lucia di Lammermoor”: il trionfo del virtuosismo al “Bellini”
“Lucia di Lammermoor”. Musica di Gaetano Donizetti. Libretto di Salvatore Cammarano. Interpreti: Lucia: Maria Grazia Schiavo/Irina Dubrovskaya; Lord Enrico Ashton: Christian Federici/Francesco Landolfi; Lord Arturo Bucklaw: Marco Puggioni/Andrea Schifaudo; Sir Edgardo di Ravenswood: Francesco Demuro/Giulio Pelligra; Raimondo Bidebent: George Andguladze/Gaetano Triscari; Alisa: Claudia Ceraulo; Normanno: Nicola Pamio.
Direttore d’orchestra: Stefano Ranzani. Regia: Giandomenico Vaccari. Scene, costumi e proiezioni: Alfredo Troisi. Assistente alla regia: Alessandro Idonea. Aiuto costumista: Giovanna Giorgianni. Luci: Antonio Alario. Maestro del coro: Luigi Petrozziello. Orchestra, Coro e Tecnici del Teatro Massimo Bellini di Catania. Allestimento del Teatro G. Verdi di Salerno.
Dal 1810, data della prima opera di Gioacchino Rossini, al 1848, l’anno in cui morì Gaetano Donizetti, tre compositori dominavano l’opera italiana accompagnando la transizione dal bel canto al melodramma romantico: Rossini, Vincenzo Bellini e Donizetti.
Il belcanto, è noto, si basa sulla vocalità di interpreti capaci di regolare il fiato, su un virtuosismo espressivo fatto di gorgheggi, trilli, accenti, ‘smorzandi’ e ‘crescendi’: Vincenzo Bellini, esaltato da Rossini, è l’ultimo compositore del belcantismo; rappresenta la transizione verso il lirismo di Donizetti e poi di Verdi.
E Rossini fu sempre amico sincero e sostenitore degli altri due. Bellini in una lettera scriveva che la protezione di Rossini gli stava dando gloria e fama. Dopo un primo momento di ammirazione, invece, non risparmiò pesanti critiche a Donizetti (Il bergamasco non riuscì a sostenere il grande successo riscosso dal catanese con I Puritani), a fronte della grande stima che Gaetano nutriva per lui tanto da scrivere una ‘Messa di Requiem’ per la morte del Cigno.
Il pesarese, comunque, considerava Donizetti l’unico che potesse rendere giustizia alla sua musica: lo volle a dirigere il suo ‘Stabat Mater’. Lo raccomandò inoltre a Metternich invitandolo a chiamarlo a Vienna e, in lacrime per la sua partenza, regalò all’amico quattro bottoni di diamanti.
In tale contesto si inserisce dunque Gaetano Donizetti (1797 – 1848) nato a Bergamo il 29 novembre 1797 da una famiglia di umile condizione e ammesso a frequentare le “lezioni caritatevoli di musica” dove cominciò la sua prima formazione sotto la guida e la protezione di Johann Simon Mayr.
Con le sue circa 70 opere il Nostro segna il passaggio dal romanticismo del secondo Rossini, dal suo bel canto ereditato da Bellini, al melodramma appassionato di Verdi.
Diverse sventure e numerosi lutti (“Senza padre, senza madre, senza moglie, senza figli… per chi lavoro dunque? … Tutto, tutto ho perduto”) costellarono la sua vita, fino alla malattia mentale, causata dalla sifilide, che lo condusse nel 1848 -cinquantenne- alla morte. A questa è legato il mistero del ‘teschio sparito’ che solo il 26 luglio 1951 ebbe una soluzione: la calotta cranica, trafugata da un sanitario durante l’autopsia fu ritrovata e venne posta nella tomba così da ricomporre l’intera salma.
Le traversie avevano spronato il musicista a superare le sue umili origini con una frenetica e fortunata produzione, spostandosi tra Bologna, Vienna, Parigi e Napoli dove fu direttore del ‘S. Carlo’.
Come Rossini egli componeva in tempi brevissimi le sue opere. Felix Mendelssohn scriveva: “Donizetti finisce un’opera in dieci giorni…qualche volta arriva a dedicare tre settimane”.
Anche la tragica storia dell’eroina più iconica della galleria donizettiana fu composta dall’autore in 36 giorni. Fin dal suo debutto la Lucia di Lammermoor diventava il modello stesso del melodramma romantico italiano con numerose punte di belcantismo.
L’opera venne rappresentata nella versione originale italiana anche a Parigi, al ‘Théâtre des Italiens’, nel 1837. Due anni dopo, Donizetti decideva di realizzarne una versione francese per il ‘Théâtre de la Renaissance’ dove debuttava il 6 agosto 1839 entrando a pieno titolo nella cultura nazionale (in Madame Bovary Flaubert ambienta il capitolo XV del romanzo al teatro di Rouen durante una recita di Lucie). Non solo in Francia era conosciuta e apprezzata l’opera, ma anche nel resto d’Europa: Lev Tolstoj la nomina nel capitolo V di Al’bèrt, del 1858, in cui il protagonista dice che anche nella musica ‘nuova’ ci sono ‘straordinarie bellezze’ come La sonnambula di Bellini e il finale di Lucia.
Delle oltre settanta opere di Donizetti, solo quattro non uscirono mai dal repertorio dopo la sua morte: in primo luogo la Lucia di Lammermoor, appunto, poi L’elisir d’amore, il Don Pasquale e La favorita. Per le altre bisognò aspettare il 1948, la cosiddetta “Donizetti-Renaissance”, nel primo centenario della morte del compositore.
La vicenda, nel libretto di Cammarano (1801-1852), è liberamente tratta dal romanzo The bride of Lammermoor (1819) dello scozzese Walter Scott (1771-1832) le cui opere, tradotte in diverse lingue, ebbero un’ampia diffusione in Europa, creando il prototipo del romanzo storico caratterizzato da una base documentaria (sul modello delle Memorie di un cavaliere di Daniel Defoe, del 1720, per giungere a Manzoni ) e insieme gotico, con le sue atmosfere cupe, le situazioni violente, le psicologie morbose, le suggestioni macabre sull’esempio di Horace Walpole, il suo iniziatore.
Il Waverley, pubblicato da Scott nel 1814, è considerato il punto di riferimento del genere, seguito da Roy (1818) e poi dal grande successo di Ivanhoe (1819).
La sposa di Lammermoor fu pubblicata nel 1819; la versione in italiano, con la traduzione di Gaetano Barbieri, vide la luce nel 1824 a Milano.
La storia, ambientata in Scozia durante il regno della regina Anna (1702-1714), si basa, secondo l’autore, su un fatto realmente accaduto nella famiglia Dalrymple (“La famiglia Dalrymple – osserva Scott – produsse in due secoli tanti uomini di talento sia civile che militare, di lettere, eminenti figure politiche e professionali”).
La trama ruota attorno a Janet, la sorella di Sir James Dalrymple promessa in sposa, per volere della famiglia, a David Dunbar, erede di Sir David Dunbar di Baldoon. Ma Janet è innamorata di Archibald, terzo Lord Rutherford, non gradito alla famiglia perché, caduto in disgrazia, è senza patrimonio.
Secondo il sistema patriarcale del tempo, tuttavia, Janet è costretta a sposare David. Ma la notte stessa dalla camera da letto si sentono provenire delle grida: lo sposo è stato accoltellato mentre Janet, coperta di sangue, piangente e in preda al delirio, brandisce un coltello. Giudicata insana di mente morirà poco dopo.
Da questo romanzo Salvatore Cammarano (1801 -1852), considerato il maggiore librettista italiano dopo Felice Romani, trasse il libretto per Lucia di Lammermur.
Abbandonata l’attività di commediografo nel 1834 Cammarano scrisse quasi quaranta libretti collaborando con alcuni tra i maggiori operisti italiani del tempo. Proprio per la Lucia iniziò la lunga e felice collaborazione con Donizetti.
Già il 26 settembre 1835 andava sulle scene del S. Carlo, con grande successo, questa loro prima opera comune. La cooperazione tra i due continuò con ulteriori sette lavori.
Cammarano morì subito dopo aver completato il suo ultimo libretto, Il trovatore, per Giuseppe Verdi.
Come nel romanzo di Scott, nell’opera di Donizetti -sempre nella Scozia della fine del 17° secolo-si scontrano i destini di due nobili famiglie.
Lucia Ashton ama Edgardo il cui padre è stato ucciso da suo fratello, Enrico, che ha usurpato anche i beni della famiglia Ravenswood.
Enrico inganna la sorella circa la fedeltà dell’amato convincendola, per il bene del lignaggio, a sposare lord Arturo Bucklaw.
Edgardo però ricompare dopo le nozze, accusando Lucia di tradimento. Questa, impazzita per il dolore e per il suo amore perduto, durante la notte uccide lo sposo e muore. Accorso alla notizia della tragedia l’innamorato si pugnala davanti al cadavere della donna.
La trama fa da cornice a questo ‘trionfo della lirica’ sotto la regia di Giandomenico Vaccari che, nell’intervista concessa al nostro giornale si è dichiarato soddisfatto del suo “allestimento assolutamente tradizionale ma all’interno particolare per lo scavo psicologico”: compito del regista è, per lui, non ricostruire fedelmente ma comprendere le ragioni di ogni personaggio. Sottolinea ancora Vaccari la presenza di fantasmi e spiriti cattivi che portano alla perdizione e alla maledizione: una delle grandi tematiche di Scott.
Anche per il Direttore Stefano Ranzani la partitura deve essere trasparente e sovrana:
“la musica è fatta di pensiero espresso in suono… specie per questo musicista istintivo, straordinario, capace di passare dal dramma all’opera buffa… Rossini, Bellini e Donizetti hanno fatto sì che Verdi diventasse quel grande compositore che fu.”.
Sotto la guida di tali ‘maestri’ ha dato il meglio di sé un cast a dir poco straordinario.
Il terzetto di ruoli vocali soprano, tenore, baritono è alla base pure di quest’opera.
La vocalità della protagonista è il belcanto rossiniano, mentre per i ruoli maschili è il canto ‘spiegato’.
Christian Federici nei panni di Enrico, il ‘baritono drammatico’, si è dichiarato felice di interpretare per la quarta volta questo ruolo di ‘cattivo’, ma in realtà anche lui vittima dei tempi e delle questioni politico-economiche che minacciano la sua casata. “Lavorare con il direttore Ranzani – continua – è stato motivo di grande crescita artistica perché ha saputo cesellare ogni singola nota…”
Edgardo possiede la vocalità del ‘tenore di grazia’, nel senso moderno del termine, mentre spariva il falsetto del ‘tenore contraltino’.
Francesco Demuro si dichiara contento della scelta registica di un’edizione classica di “quest’opera meravigliosa che dà la possibilità di esprimere le proprie doti vocali…è una bella scuola di canto…”
Ed eccoci a Maria Grazia Schiavo nei panni di Lucia, il ‘soprano drammatico di agilità’ per cui Donizetti ha usato una scrittura mista: slanci drammatici d’una vocalità spianata e sillabica, insieme ad una vocalità melismatica e virtuosistica espressa attraverso gorgheggi, volate e volatine, trilli, note ribattute e picchettati.
Intervistata, la Schiavo ha voluto approfondire il significato del ruolo di questa ragazza innamorata ma vittima della società in cui vive e che le riserva una “sorte che non vorrebbe le appartenesse…Un ruolo molto difficile per i soprani…nella lettura di Ranzani molto curata, volta ad esprimere ogni sentimento e sotto la guida di questo regista.”.
Nella scena più famosa, quella della pazzia, punto focale è il duetto tra voce e strumento. Donizetti prevedeva l’uso della glassarmonica o armonica a bicchieri. Tuttavia l’abbandono del teatro S. Carlo da parte dell’esecutore, Domenico Pezzi, lo costrinse a riscrivere la partitura, sostituendo la glassarmonica con il flauto.
Lucia vaneggia, confonde passato e presente nell’oblio della realtà.
Il destino si compie attraverso la morte. Davanti al corpo esanime dell’amata Edgardo (Tu che a Dio spiegasti l’ali) si suicida come un eroe romantico.
È l’unica possibilità che gli resta per congiungersi finalmente a Lucia (Se divisi fummo in terra/ Ne congiunga il Nume in ciel) che, con una trovata registica finale da ‘metateatro’, avanza lentamente tra il pubblico.
Un delirio di lunghissimi applausi – molti a scena aperta -, le numerose chiamate degli artisti e del coro, che ha svolto un ruolo determinante, hanno completato l’incanto di questa “serata all’opera”.
Foto e video di Lorenzo Davide Sgroi