Il cancro non deve essere un marchio a vita!
Noi donne, nonostante gli ostacoli che la vita ci frappone, siamo capaci di rinascere dalle nostre ceneri per riprendere il volo delle nostre esistenze con più energia e determinazione di prima. Per tutte noi lo hanno urlato, con la potenza orgogliosa della loro presenza, le venti fenici che hanno sfilato sulla passerella della Fashion Week di Milano.
Venti donne, guarite dal cancro al seno, hanno sfilato senza paura di mostrare le proprie cicatrici sul corpo, fiere di esibire, al mondo che le guardava, quella pienezza di vita che le illumina da dentro e hanno sublimato quelle loro ferite fisiche in una potente forza interiore per essere di nuovo donne nel senso pieno del termine.
Una scelta per dimostrare a tutte le donne, che in questo momento stanno lottando, quanto possiamo essere guerriere per vincere questa maledetta battaglia, ma soprattutto per risvegliare le coscienze di una società troppo spesso concentrata sul proprio edonismo, in modo da renderla partecipe di questa realtà che se è spesso fatta di cadute però lo è anche di risalite e di guarigioni.
Una donna guarita dal cancro non è una paziente per il resto della sua vita, la malattia anche se l’ha segnata nel corpo non ha segnato la sua identità di donna.
La bellezza vittoriosa di queste venti donne si è trasformata in un messaggio dirompente per sensibilizzare l’intera comunità sulle innumerevoli difficoltà che non sono le donne ma tutti i pazienti oncologici sono costretti ad affrontare nella quotidianità delle loro giornate.
Spesso un malato di cancro oltre a dover lottare contro la sua malattia, deve anche lottare per non perdere la propria dignità di individuo.
Non è raro che un ammalato di cancro subisca discriminazioni sul posto di lavoro come mobbing, demansionamento o addirittura, nel caso di datori di lavoro privati, anche il licenziamento.
Sono forme di discriminazioni subdole spesso difficili da dimostrare ma che vengono messe in atto perché permesse da un sistema che pone in primo piano gli interessi economici e non quelli dell’individuo, ridotto a un numero anonimo e intercambiabile. La produttività, come una bestia famelica, inghiotte tutti coloro che non soddisfano le caratteristiche richieste e non consente perdite in termini di costi da sostenere in caso di malattie prolungate.
La nostra società è alienante e discriminatoria nei confronti di chi ritiene difettoso, l’individuo è solo uno scarto se esiste anche il più piccolo dubbio sulla sua salute e di conseguenza sul suo effettivo rendimento.
Un sistema non solo disumano ma paradossale poiché nessuno possiede tra le mani una palla di vetro dentro cui scrutare il futuro di tutti, perché tutti possiamo ammalarci.
E invece il cancro è uno stigma, una macchia indelebile che segna per tutta le vita e che impedisce di vivere in modo dignitoso.
In Italia, per un ex paziente, è pressoché impossibile richiedere un mutuo o stipulare un’assicurazione sulla vita così come gli viene preclusa la possibilità di adozione.
In tutti questi casi viene sempre richiesta la storia clinica pregressa come se questa da sola bastasse a caratterizzarlo.
Il cancro è una maledizione che travolge e stravolge l’esistenza, è un marchio infamante impresso a fuoco dalla illusoria e vacua idea di perfezione della nostra società.
Ma ogni paziente dopo aver sconfitto la sua battaglia merita di ritornare a una normalità di vita e di avere le stesse opportunità degli altri.
Non permetterglielo significa punirlo per sempre per una malattia che non ha scelto di avere e discriminarlo in base a criteri del tutto estranei alle sue effettive capacità.
Ma il nostro disegno di legge sull’oblio oncologico è ancora bloccato al governo da più di un anno e non è stato trasformato in normativa come, oramai, in tanti altri paesi europei.
(Ma non disperiamo, i nostri provetti politici, tra una propaganda populista e l’altra troveranno il tempo per occuparsene)
Ma non è una semplice questione di tempo è urgenza di riconoscere diritti imprescindibili per la dignità umana!
Il diritto all’oblio oncologico, che impone di non richiedere più, dopo dieci anni dalla guarigione, il quadro clinico pregresso, permetterà finalmente di eliminare qualunque forma di discriminazione in base a pregiudizi fisici.
Lasciare migliaia di guariti in questa incertezza è come condannarli a vivere in una sorta di limbo in cui non si è padroni della propria vita pur sapendo di averne le capacità. Ed è vergognoso che si continui a etichettare un individuo solamente per la sua malattia, un “diverso” secondo un sistema antiquato e discriminatorio convinto di una presunta differenza tra chi si è ammalato e chi è sano.
Un modello di comportamento non degno di una civiltà intesa come un sistema sociale che deve garantire e assicurare a tutti i suoi membri gli stessi diritti per un effettivo progresso sociale, morale e culturale.