Non si può morire di lavoro!
Nel nostro “allegro” paese, in cui avere un lavoro è una conquista titanica e quasi sempre non gratificante né a livello personale né economico, sempre più spesso proprio questo lavoro si trasforma in una assurda condanna di morte che solo nel primo semestre del 2023 ha ucciso 559 lavoratori, una media sconcertante di 80 vittime al mese.
Non si può morire di lavoro!
Non è accettabile che delle vite vengano spezzate in modi così brutali solo perché non esiste una seria e decisiva politica di prevenzione, solamente perché gli interessi economici sono sempre prioritari e relegano la vita umana e un bene di secondo ordine.
Le giornate lavorative degli operai scorrono sempre uguali a se stesse, tra decine di difficoltà e di disagi, avvolte nell’indifferenza generale di imprese, che troppo spesso ritengono la vita di un operaio sacrificabile rispetto ai proventi, e della nostra stessa società che, attratta dalla brillantezza delle professioni in carriera, quasi sempre non attribuisce la giusta rilevanza al lavoro manuale.
Però tutti, nessuno escluso, cittadini, istituzioni, imprenditori, sindacalisti e politici di turno, ci ricordiamo di loro solo quando muoiono e i loro nomi risaltano con i loro caratteri neri sulle colonne dei giornali e le loro storie riempiono i programmi televisivi.
Così come è appena successo con la tragedia di Brandizzo.
I riflettori si sono accesi subito e, con la loro luce forte, hanno impietosamente illuminato le immagini dell’ennesima strage che ha spezzato la vita dei cinque operai che, mentre lavoravano alla manutenzione dei binari ferroviari, sono stati investiti da un treno ignaro delle loro presenza.
Cinque operai, come ogni giorno, sono andati a lavorare e non hanno fatto più ritorno a casa!
La loro morte è diventata l’argomento del giorno, la notizia su cui scrivere e scrivere quando invece dovremmo apprezzare questi uomini da vivi, quando lavorano nel silenzio tra la noncuranza di tutti noi, per riconoscere loro la dovuta importanza del lavoro che svolgono.
Queste vite spezzate non sono solo numeri da aggiungere alle statistiche annuali, sono individui in carne e ossa, sono padri, mariti e figli, sono membri di famiglie che piangono le loro morti senza comprenderle a fondo e nella più totale solitudine.
Perché passata l’ondata mediatica, quei riflettori, che sono stati prontamente accesi, si spengono di colpo e i familiari vengono abbandonati nel buio del loro dolore.
La perdita di una vita umana è un danno collaterale ma perfettamente superabile secondo le asettiche logiche di profitto. Il posto vuoto verrà preso da un altro operaio che svolgerà lo stesso compito nel più totale anonimato.
Finiti i venti di protesta, il sipario verrà calato e l’ondata di indignazione collettiva si spegnerà con la stessa velocità con cui è divampata, per poi riaccendersi alla prossima assurda morte.
Nel frattempo lavoratori coscienziosi continuano ad andare sul proprio posto di lavoro con l’amara consapevolezza di rischiare la propria vita ogni giorno, per mancanza di adeguate azioni che mirino a rafforzare le misure di controllo e di sicurezza.
Questi cinque operai, così come tutte quelli prima di loro, sono stati uccisi non solo dall’errore umano ma soprattutto dall’avidità di una casta imprenditoriale che quantifica la vita dei propri dipendenti secondo criteri di utili e proventi, e dalla colpevole ignavia di una classe politica sempre più distante dalle reali ed effettive problematicità della comunità elettiva.
A che cosa serve a noi cittadini e alle famiglie in lutto sentire parlare adesso della necessità di adottare misure straordinarie per la sicurezza? O che la sicurezza sul lavoro deve essere una priorità?
Parole queste che risuonano in tutta la loro bieca falsità, dopo anni e anni di totale disinteresse, di concessioni di appalti a società di dubbia capacità, di privatizzazioni inutili e dannose, di continui tagli ai necessari controlli e di assoluta incapacità nel saper gestire una vera cultura della sicurezza lavorativa.
Forse non tutte queste morti si potevano evitare ma sicuramente la maggior parte sì, se solo i nostri governi, di sinistra e di destra, si fossero impegnati seriamente invece di accapigliarsi e insultarsi come comari di quartiere.
Battersi il petto adesso non serve a niente, serve solo ad acuire la sofferenza delle famiglie coinvolte e il nostro senso di smarrimento e di fallimento.
Perché ogni volta che una vita viene spezzata sul lavoro è una sconfitta per l’intera comunità.
Piuttosto che indignarci e scrivere fiumi di parole sui social, pretendiamo tutti che le nostre Istituzioni si impegnino ad attuare una seria strategia di prevenzione, solamente in questo modo smetteremo di piangere morti evitabili.
Ma soprattutto non dimentichiamo mai che coloro che muoiono sul proprio posto di lavoro non sono numeri ma uomini e donne con un nome e cognome come i cinque operai morti a Brandizzo.
Michael Zanera, Giuseppe Sorvillo, Saverio Giuseppe Lombardo, Giuseppe Aversa, Kevin Laganà.