L'Opinione

La bellezza dell’individualità

Per Oscar Wilde la bellezza era la forma più alta di genio e non aveva bisogno di spiegazioni in quanto tale. Ma ai giorni nostri, la nostra società sempre più dominata dai social, non ha più la capacità di interiorizzare un tale valore. Come un’enorme fabbrica, sforna centinaia di futili stereotipi a cui noi tutti ci conformiamo inconsapevolmente, schiavi di una tacita dittatura di immagini non ci accorgiamo che abbiamo ridotto qualunque aspetto delle nostre esistenze a una banale superficialità che ci spinge costantemente a soffermarci solo su ciò che appare senza sentire la necessità di andare oltre.
Questa continua ricerca di una effimera perfezione ci ha come svuotati all’interno e ci ha convinti che siamo individui solo nel momento in cui siamo perfettamente allineati con i canoni estetici che ci vengono propinati quotidianamente mediante i mass media. La nostra identità esiste solo quando riusciamo a modellarla il più vicino possibile ai corpi perfetti che luccicano nelle pubblicità.
La bellezza plastica ci definisce, attraversa la nostra interiorità e ci plasma a sua immagine, senza alcuna via di scampo. Tutti ne siamo travolti e ci sollazziamo in questa nostra vana esteriorità, che, nonostante la sua apparente brillantezza, ha oscurato la nostra essenza e l’ha privata della sua essenzialità.
Precipitati in questa trappola, viviamo ossessionati dal nostro aspetto e dall’ansia di dover apparire perfetti ad ogni costo. E così ci affanniamo a inseguire standard di bellezza irreali e irraggiungibili, per poi sentirci frustrati tutte le volte che non riusciamo a conseguirli. Persuasi che la bellezza esteriore sia molto più importante di quella interiore, abbiamo perso ogni contatto con noi stessi e soffriamo fino a sentirci sbagliati, non adeguati nei confronti degli altri. E non ci rendiamo conto che l’illusione su cui si fonda tutta la nostra società ci porta a non amarci per quello che siamo veramente ma ci spinge a odiarci quando non rientriamo negli schemi vacui in cui ha incatenato le nostre relazioni.
Oramai la nostra cultura è dominata dal marketing che pone la bellezza non come totalità dell’individuo ma solo come costruzione del corpo che diviene merce di scambio e acquisisce un fine esclusivamente utilitaristico.
Siamo molto lontani dal concetto di bello dell’antico modo greco secondo cui la bellezza coincideva con il bene interiore, esplicato in un solo termine, Kalokagatia, per indicare un ideale di perfezione fisica e morale in perfetta armonia tra di loro.
Adesso ciò che conta è diventare perfetti fuori per sentirsi perfetti dentro.
Un convincimento che si è radicato così in profondità in ognuno di noi da essersi trasformato in una priorità ineliminabile che, pur coinvolgendo tutti, continua a discriminare in modo più evidente la donna. Essa, ancor più che in passato, è prigioniera di questi assurdi canoni estetici che le impongono, più degli uomini, di essere, sempre e comunque, bella e perfetta.
La pressione sociale sulla sua esteriorità è molto più accentuata rispetto a quella esercitata sull’uomo. Il primo elemento di giudizio che viene messo in atto, è proprio quello relativo al suo aspetto fisico, come se questo da solo bastasse a definirla.
In molti ambiti lavorativi, ancora oggi la bellezza della donna risulta essere un fattore determinante per la sua assunzione, trasformandosi così in un elemento discriminante che in sostanza mette in ombra capacità e preparazione a vantaggio esclusivo dell’aspetto.
Se in televisione la bellezza fisica fosse un principio imparziale per poter svolgere il proprio lavoro, più della metà degli uomini non ci lavorerebbero poiché non risponderebbero a questo requisito. Invece mentre gli uomini possono permettersi di non essere belli, basta la loro bravura professionale, questo privilegio non è concesso alle donne che devono sempre soddisfare modelli fisici imposti e poi dimostrare ciò che sanno fare. La competenza personale da sola non basta se non è accompagnata dalla bellezza, non ha alcuna rilevanza, il giudizio sull’esteriorità alla fine coinvolge la donna nella sua interezza.
Stereotipi che mostrano tutta la loro invadenza anche nella quotidianità delle nostre vite social su cui ci mostriamo solo belli e perfetti, nelle nostre foto ritoccate, con i nostri volti senza rughe e imperfezioni che ci siamo affrettati a eliminare in quanto marchi infamanti.
Vittime inconsapevoli di questo sistema che prima ci illude di essere liberi dei nostri pensieri e che poi ci imprigiona in regole preordinate, noi tutti, donne e uomini, non siamo più in grado di liberarci dagli invisibili fili della ragnatela che questa nostra menzognera società ci ha tessuto attorno e mentre crediamo di godere di un finto progresso, sostanzialmente restiamo imprigionati agli schemi imposti che ci hanno allontanato dalla bellezza dell’individualità e che ci hanno omologati tutti svincolandoci dalla nostra profondità etica.

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