Libri, misteri e segreti del “Troparium de Catania”
Una galoppata lunga settecento anni tra piccoli e grandi fatti di Sicilia, veri o inventati che siano, con una conclusione madrilena che induce a riflettere.
Questo è Troparium de Catania (Algra editore, 240 pagine, 16 euro) in cui Roberto Bolelli racconta dei misteri legati a un manoscritto con oltre duecento tropi – ritmiche preghiere dell’innografia bizantina che diventano celestiali canti polifonici – raccolti nella Cattedrale della città etnea nel periodo normanno.
Quella di Bolelli – musicologo e musicista, tra i fondatori di quell’ensemble Al Qantarah che qualche anno fa aveva inciso un disco intitolato proprio Troparium de Catania – è un colto e popolare mix tra romanzo meticcio, in cui al genere storico s’intrecciano la scienza musicale e il giallo, e feuilleton.
“La passione di Roberto Bolelli per il mondo dei suoni e per la storia – scrive Paolo Fresu, notissimo musicista, nella prefazione al libro – si esprime appieno in questo brillante viaggio dove verità e fantasia si incrociano…”.
Al centro di tutto una serie di misteriosi omicidi e suicidi e, mentre nel mondo si diffondono le massonerie, la nascita di una segreta confraternita di monaci cantori, gli Agatini. Questi si ritroveranno, per secoli, nel carcere in cui Sant’Agata, Patrona di Catania, morì dopo il martirio, con l’orribile taglio dei seni da parte del console romano Quinziano.
Dipanandosi nel corso dei secoli, il racconto attraversa vari protagonisti, a cominciare da Federico II imperatore, che tornò sulla decisione di radere al suolo la ribelle Catania quando sul suo libro di preghiere apparve la scritta “Noli offendere Patriam Agathae, quia ultrix iniuriarum est” (non offendere la città di Agata, vendicatrice d’ogni ingiustizia).
Nel “suo” Castello Ursino, lo Stupor mundi “era inquieto … come sempre faceva nei suoi spostamenti, s’era portato dietro tutto il serraglio, coi cammelli, i leoni e gli elefanti” e ancora falconieri e schiavi mori e persino il poeta Jacopo da Lentini.
Bolelli descrive con vividezza la sua passeggiata con l’incontro con il venditore di ceusa niuri che l’imperatore scambia per more, con il fabbro che costruisce marranzani e con i musulmani che bevono vino e inneggiano a sant’Agata. Federico era diretto in Cattedrale, “dove avrebbe assistito alla messa e, soprattutto, avrebbe ascoltato i monaci cantare … Era quanto di più celestiale avesse mai udito … Ed era polifonico”.
In tempi di delicati equilibri tra imperatore e papato, suicidi e delitti diventano complicati. Ma nulla si scopre, degli Agatini. Neanche quando, molto tempo dopo, una ragazza che avrebbe dovuto cantare nel coro viene trovata morta con vicino due candide cassatelle di ricotta con delle ciliegie candite in cima, un dolce tradizionale catanese: le minne di Sant’agata (la gastronomia, trattata con ironia, s’insinua spesso nella trama del racconto).
Poi, a sconvolgere tutto, la fine del mondo: il terribile terremoto che nel 1693 distrugge Catania: su ventimila abitanti ne sopravvivono solo quattromila. Muoiono quasi tutti i monaci del Monastero di San Nicolò l’Arena, compresi l’Abate, colui il quale pensava d’inserire nel coro del Troparium anche voci femminili, e il maestro di Cappella, seppellendoli con i loro segreti.
Il manoscritto del Troparium viene “ritrovato più o meno integro sotto i detriti della biblioteca crollata”, ma il suo destino è segnato: Giovanni Francesco Paceco, duca di Uzeda, comunica al nuovo abate che farà di tutto per allontanare da Catania il manoscritto per via “delle pratiche diaboliche di quei galantuomini dei confratelli che … si riunirebbero al Santo Carcere …”.
Ci sono precise ragioni famigliari dietro la decisione del Duca. E quando torna a Madrid si scopre che “il manoscritto col Troparium non era più a Catania”.
E la confraternita si scioglie.
La narrazione riprende in Spagna, parecchio tempo dopo: “O divina Agata, hai sacrificato le tue sante minne per sarvari la tua candida alma. E in todos secula seculorum i forestieri vengono a Catania a spraddoneggiari e a ttia ti attocca di continuare il tuo martirio”.
A parlare è Carmelo, singolare figura di monaco-puparo che, grazie a don Manuel De Falla Y Matheu, scova il Troparium nella Biblioteca Nazionale di Madrid (dove si trova ancor oggi).
Il finale, come detto all’inizio, fa riflettere. Carmelo trova una grave menomazione del brano del Tropharium.
Mentre De Falla, analizzando la vicenda protrattasi per settecento anni conclude: “Sì, la musica è qualcosa di naturale. Ed è femmina”.