Il lato oscuro

“Providence” di Alan Oswald Moore

L’ultima opera di Moore, è intitolata “Providence”, definita da molti il “Watchmen” del filone dell’Orrore Soprannaturale. Alan Oswald Moore – scrittore, compositore e occultista inglese. Se lo si giudicasse solo dall’aspetto, parrebbe uno squinternato; barba incolta, capelli lunghi e ribelli, sguardo tra l’ascetico e l’insondabile (la reincarnazione di Rasputin, secondo me…). Il suo vestirsi, molto colorato, fa pensare ad una sorta di gran maestro di un ordine mistico. Il giorno in cui ha compiuto quarant’anni si è dichiarato “mago” e “sciamano” (infatti, da allora alcuni si riferiscono a lui come il “Magus”). Chi non lo conosce non potrebbe mai sospettare che dietro quell’espetto stravagante si trova un genio, una personalità di una cultura vastissima e sfaccettata e di una sensibilità fuori dal comune. La sua genialità è indiscussa, soprattutto nel campo del fumetto che ha totalmente rivoluzionato. Le sue opere parlano da sole:”The Killing Joke”, “V for Vendetta” (da cui “quelli” di Anonymous hanno copiato la “maschera” che sarebbe la stilizzazione del volto di Guy Fawkes, cospiratore inglese del 1600), il capolavoro “The Watchmen” e “From Hell” (ispirato ai delitti di Jack the ripper). In queste opere, oltre che all’originalità dell’esposizione, all‘impietoso e abile scavare nella psiche umana, colpisce la complessità dei livelli narrativi, una sola lettura non basta per poterne cogliere tutte le sfaccettature, la complessità delle sottotrame e sotto sottotrame (un perfetto gioco ad incastro in cui è quasi impossibile riuscire a decifrare tutti gli elementi che Moore semina a profusione e apparentemente a caso), i rimandi, le sottili allusioni…ogni vignetta è un universo a se, ma non è staccata dal resto della narrazione, anzi, ne contribuisce come ogni singola cellula rispetto a tutto un organismo.
Stavolta parliamo del fumetto.
In molti posti, tra cui l’Italia e gli Stati Uniti, il medium fumetto è stato sinonimo di svago per bambini e, se era letto da qualcuno un po’ più grandicello, per ritardati mentali o per ammalati di infantilismo.
In altri paesi, invece, non ha sofferto di tali pregiudizi, come in Giappone, considerato da sempre lettura per una ampia fascia di età, ed in Francia, dove addirittura viene censito a pari dignità nelle classifiche letterarie dei volumi più venduti del periodo.
Il fumetto adesso ha più di cento anni, per lo meno nell’accezione moderna, infatti si fa risalire convenzionalmente la sua nascita con le prime pubblicazioni di “Yellow Kid” (poiché, anche se esistono esempi antecedente, è con questo personaggio di Richard F. Outcault che inizia, graficamente e concettualmente, la moderna impostazione di questo “mezzo di comunicazione”).
Da una voce del “Dizionario Jazz” (Carles, Clergeat , Comolli – Armando Curcio Editore), si legge: “Il jazz ed i fumetti sono stati storicamente vittime dello stesso pregiudizio: nella gerarchia piramidale delle belle arti, i giudizi degli accademici li hanno posti per lungo tempo più vicini al marciapiede che al cielo. Inizialmente percepiti come infraculture (‹‹musica da selvaggi ascoltata da degenerati›› per il jazz; ‹‹svago idiota ad uso degli stupidi›› per i fumetti) l’idioma jazzista e la narrazione figurativa sono ormai considerati quasi all’unanimità (il jazz dagli anni ’50, i fumetti dagli anni ’80) come arti creative maggiori…”(pag. 338).
Qualcuno lo ha considerato il parente minore e deviante della letteratura: niente di più sbagliato. Il fumetto, come afferma giustamente Daniele Barbieri nel suo saggio “I linguaggi del fumetto” (Bompiani – 1991), si serve di “linguaggi” per lo più diversi da quest’ultima e, semmai, è più affine all’illustrazione e al cinema (per un discorso più articolato si rimanda, ovviamente, a questo saggio).
A questo punto, anche se è una citazione trita a ritrita, che è diventato di moda pronunciare, riporto anch’io la famosa frase di Umberto Eco che ebbe a dire: “Se voglio una lettura divertente leggo Hegel, se voglio una lettura impegnata leggo Corto Maltese…”

Questa sintetica premessa ci introduce all’opera di questo intervento: “Providence 1” di Alan Moore (160pp. 2015 Paninicomics), che ne raccoglie i primi quattro numeri già usciti negli Stati Uniti.

La vicenda parte da New York, dipanandosi per il quartiere di “Red Hook” e approdando, per adesso, al New England (Salem, Athol). Il protagonista è un giornalista, ebreo e omosessuale (ovviamente, visto il periodo, siamo negli anni ’20, non dichiarato), che inizia a svolgere un’indagine relativamente ad un libro che, parrebbe, inneschi anomale reazioni in chi lo legge (“Sous Le Monde” di Claude Guillot ). Un luminare (che vive in un appartamento dove la temperatura è costantemente tenuta molto rigida …) suggerisce al giornalista che Guillot è stato ispirato da un altro libro, antico e maledetto, scritto da un arabo di nome Khalid Ibn Yazid e intitolato “Kitab Al-Hikmah Al-Najmiyya” (Libro della Sapienza delle Stelle).
Moore sparge elementi lovecraftiani a piene mani: il libro di conoscenze proibite ad opera di un arabo, il nome del giornalista, Robert Black, che richiama il protagonista di “The Haunter of the Dark (1936)”, Robert Blake, che a sua volta era ispirato all’amico e scrittore di Lovecraft, Robert Block. Il dott. Alvarez del primo capitolo che ricorda “Cool Air (1928)”, gli altri capitoli che si rifanno a “The Horror at Red Hook (1927)”, “The Shadow of Innsmouth (1941)” e “The Dunwich Horror (1929)”.
Ma non sono i vari riferimenti il substrato più importante, ma l’essere riuscito a mediare in maniera assai soddisfacente la mitologia, il pensiero lovecraftiano e, anche, l’uomo/scrittore. Moore trasporta in quest’opera il profondo disagio, trasmesso a sua volta da Lovecraft nella sua opera, di fronte ad un universo schiacciante e indomabile, le sue paure dell’”altro” (che può essere un individuo o una razza, o la personificazione di una forza distruttiva del creato), dell’inconoscibile, dell’elemento “diverso”. Anzi, addirittura, rende più espliciti certi tabù sessuali che nel “solitario” di Providence erano vagamente sottintesi.
Moore da sfoggio, al solito, della sua grande conoscenza (beninteso, non solo del mondo di Lovecraft!) e sensibilità, la narrazione è zeppa di riferimenti, di approfondimenti, di tanti piani di lettura ed allo stesso tempo è godibile, priva di intoppi o di cadute di tono, ma, attenzione, una sola (o anche due sole), lettura non basta (bastano) per riuscire a cogliere buona parte dei “sentieri” esplorati da Moore. Di particolare interesse, secondo me, sono i numerosi flashbacks che si incasellano e ci parlano del protagonista, Robert Black, costruendone man mano le sue esperienze, la sua personalità in relazione agli eventi che accadono.
Una menzione speciale la merita il disegnatore Jacen Burrows, che grazie alla sua “linea” pulita e, allo stesso tempo, ricca di dettagli, riesce a tradurre al meglio il peculiare modus narrativo di Moore. L’ambientazione dell’epoca è ricreata magistralmente, l’espressività dei personaggi in rapporto alle situazioni che si susseguono, anche grottesche o ambivalenti, è perfetta.

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