Catania, torna “Post Mortem” e Nino Romeo giganteggia sulla scena
Un’ora e tredici minuti con il fiato sospeso, tra angoscia, curiosità e pietosa partecipazione, nell’assistere a Post mortem – spettacolo del 2006 ripreso nella sala di FabbricaTeatro, in via Caronda, a Catania -, scritto e interpretato da Nino Romeo e diretto da Pippo Di Marca.
La tragedia per gli antichi greci era un rito dionisiaco che celebrava la perdita dei freni inibitori, il cedere al selvatico, all’animalesco, ai piaceri, dal vino al cibo, e a una sessualità sfrenata e primordiale. E ogni tragedia narrava della caduta di un eroe.
In questo caso Delfo Torrisi, figlio di quel Cirinu ‘u munnizzaru, che, tronfio, andava in piazza allicchittatu comu ‘n sucanchiostru, un impiegato, per vantarne i successi. E la ricerca della promozione sociale coincide con il passaggio dal puro stato di natura a un ruolo cardine di una società complessa: il medico.
Eppure la carriera di Delfo aveva subito una forte scossa: all’ultima materia prima della tesi di laurea era stato sorpreso con l’infermiera Elvira da Mariannina la misterbianchese, sua fidanzata e collega, con il doppio risultato d’essere da lei lasciato e cacciato dal Direttore dalla Scuola di ginecologia che sulla ‘nfirmera aveva messo gli occhi.
Così, l’avviniri s’hav’a ‘ntrubbuliatu fittu, racconta il protagonista in un dialetto affascinante, autentico capolavoro d’archeologia linguistica, che caratterizza il testo di Romeo. È il Siciliano meravigliosamente rozzo dei mestieri, della strada e della vita, poverissima, del popolo. Il Siciliano come doveva essere prima che fosse italianizzato da Giovanni Verga o reinventato da Camilleri. Una lingua in cui germogliano come fiori le tracce di tutti i popoli passati da quest’isola meravigliosa ( e impegnati, spesso, a uccidersi tra di loro, quasi a voler dimostrare che l’animalità è dura a morire).
Sulla scena, Nino Romeo è un gigante: la domina, in capo a un tavolo colmo di bottiglie e bicchieri, spostati continuamente, come soldatini in una battaglia.
E onora Dioniso bevendo e narrando. Per esempio di come Delfo, dopo la cacciata, avesse girato inutilmente tutti gl’Istituti di Catania, trovando spazio solo in Medicina Legale: ddà cu’ dumannava ‘na tesi s’u isavunu ‘n cazzicaledda, lo portavano in trionfo sulle spalle.
Da Medicina Legale, dunque, riprese la corsa del protagonista: sposò un’altra Mariannina, stavolta acese, figlia del proprietario di un’assicurazione che chiedeva perizie ai medici legali, s’arricchì e visse una vita prospera, spendendo e spandendo, con una figlia che diventa sempre più bella.
Della narrazione, è Delfo il protagonista. Ma la storia che racconta è corale: un flusso di timbri vocali distinti che si ricongiungono per andare all’unisono.
Ed è incredibile come, nel narrare, Romeo riesca quasi a mutare i propri tratti somatici, le proprie sembianze. Per esempio mentre parla di S’o nonnu Ddeffu il quale d’o vinu d’a muntagna ‘nzirtava cuntrata, annata, lignu di vutti, ‘nnestu d’a viti, suffarata, giusta o sbagghiata, patruni e mastr’i vinnigna, sulu a cia’rarini ‘u bicchieri.
Proprio dal nonno e dal padre, Delfo ha ereditato un naso sopraffino, che gli ha consentito, semplicemente odorando un cadavere, di anticipare l’esito dei più minuziosi esami di laboratorio. E questo a molti farà venire in mente Jean-Baptiste Grenouille, protagonista de Il profumo, romanzo del 1985 di Patrick Süskind ambientato nella Francia del Settecento.
Ma questo affascinante testo teatrale si tinge dei colori di Luigi Pirandello e di Vitaliano Brancati e il regista non manca di ravvivarlo anche con A la femminisca, una delle Folk Songs di Luciano Berio, che comincia con il celebre verso Signuruzzu faciti bon tempu.
Così il tempo trascorre veloce nell’inferno dell’obitorio, dove Delfo era come se si sdoppiasse: davanti ai cadaveri restava il professor Torrisi, ma una parte di lui andava in confusione, anche se tutto si risolveva con uno strano disturbo, che gonfiava a dismisura ‘a ciaramedda ammenzu ‘e cosci. E a questo c’era un unico rimedio: dare appuntamento, dopo ogni autopsia, a una donna.
La narrazione copre un arco di circa vent’anni. E quando, finalmente, Delfo s’appresta a diventare direttore dell’Istituto di Medicina Legale di Catania, – già immaginava la targa, nel sontuoso Palazzo Ingrassia: Professor Filadelfo Torrisi -, la tragedia ha il suo compimento. E la catarsi, cerimonia di purificazione, il suo sacrificio.
Avviene quando Delfo resta solo, una sera, con una giovane trovata annegata alla Plaia. Persino Cristofulu ‘u conzamorti era dovuto scappar via, lasciandolo a leggere l’arido rapporto dei Carabinieri.
E lì, nella solitudine dell’obitorio, tutto si concluse: Rastiò pi’ uri, cinitimitru doppu cintimitru, ‘dda carusa stinnicchiata e fridda…
Un finale a un tempo agghiacciante e struggente.