Teatro

Amori e sapori nelle cucine del Principe, al Verga di Catania l’intelligente sequel del Gattopardo

Teresa o Mariannina?

O forse Lighea?

Come dovremmo chiamare la protagonista di Amori e sapori nelle cucine del Principe, scritto da Roberto Cavosi per la regia di Nadia Baldi, prodotto da Teatro di Messina e La Contrada di Trieste e rappresentato nella Sala Verga per la stagione dello Stabile di Catania?

Nell’anno del Signore 1862, Cuoca Teresa (Tosca D’Aquino), “vedova” sulla quarantina, un figlio ventenne, cuciniera dei nobili palermitani Ponteleone è scossa perché, mentre s’apprestava a creare meravigliose pietanze per il ballo di fidanzamento tra Manfredi Falconeri e Angelica Sedara, le avevano appioppato, quasi un sorvegliante, un monsù: Gastòn (Giampiero Ingrassia).

Avrete capito che Amori e sapori nelle cucine del Principe potrebbe essere considerato una sorta di sequel del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, il quale dipinse con estrema lucidità il passaggio della Sicilia da un re a un altro e soprattutto dalla decadente classe dirigente nobiliare alla borghesia (qualche economista oggi le definirebbe entrambe ugualmente estrattive).

Cavosi trae nuovi spunti da quel non ancora sufficientemente indagato snodo della storia d’Italia, narrandoci della rivoluzione che si stava svolgendo… nelle cucine.

Il primo segnale era giunto nel 1772 quando mosiù Peppinò, ossia Giuseppe Lazzaro (calmi: è solo un caso d’omonimia) fu chiamato a sostituire, a Napoli, Antonia Bertutin, cuoca personale della Regina delle Due Sicilie, Maria Carolina, sorella di quella di Francia, Maria Antonietta.

Si era così ufficialmente aperta l’era dei monsù – o monzù, se preferite: si tratta in entrambi i casi di una corruzione del francese monsieur, anche se questi chef erano quasi sempre piemontesi che si davano delle arie – destinati, in pochi decenni, a scalzare le cuciniere. Le quali ultime – prima che la moda pretendesse esclusivamente pietanze e intingoli accentati: ragù, gattò, sciù, sartù, crocchè, supplì, babbà… -, avevano approntato piatti e dolci tradizionali per pranzi, cene e festini delle famiglie nobili.

Le donne cuciniere avevano perduto appeal, come diremmo oggi, soprattutto perché pochissime di loro sapevano leggere e scrivere e risultavano dunque incapaci di tramandare le complesse ricette delle pietanze. Quelle, per esempio, del Libro Novo scritto nel 1557 da Cristoforo Messisbugo, in cui l’autore spiega di non aver tempo di “descrivere diverse minestre d’hortami o legumi o insegnare di frigere una thenca” lasciando queste cose a “qualunque vile femminuccia”.

Eppure, nel testo di Cavosi, protagonista è proprio una minestra tanto perfetta, nella sua semplicità, da non poter esser replicata. Anche per via di un ingrediente segreto: il fagiolo badda bianco di Polizzi. Un’anticipazione dei presidi Slow food?

Nel corso dello spettacolo, del ballo nei saloni – che comunque restano l’empireo – si sente soltanto parlare dai servi, mentre altre vicende si snodano in quelle cucine emblema di una carnalissima terra, dove sognare – l’amore di una donna come un arricchimento grazie al cascavaddu – è un diritto di tutti.

In quest’arena pregna di sapori e odori, ma soprattutto di umori, tra pignatte, mestoli e cappe-lampadari che si mutano in crinoline, va in scena il duello tra Teresa e Gaston: lui vescovo, certo, ma lei, capace di leggere, badessa.

I due si temono e si rispettano. Ed è con delicatezza che Gaston rivela di aver letto, dopo qualche bicchiere di troppo bevuto dal Principe di Salina, una dolcezza malinconica negli occhi del suo padrone, intento a narrare di una tal Mariannina, prostituta alla quale don Fabrizio, anche quando s’immergeva nello studio delle stelle, non era certo indifferente.

Ed è abilissimo, Cavosi, a utilizzare per la figura di Teresa-Mariannina anche i vividi colori di Lighea, la sirena dell’omonimo racconto che Tomasi di Lampedusa dedicò a “settimane di grande estate trascorse rapide come un solo mattino”.

Sulla scena, Tosca D’Aquino e Giampiero Ingrassia sono altrettanto abili nel rendere fin nelle sfumature i rispettivi personaggi e molto efficaci sono anche gli altri attori: Giancarlo Ratti, Tommaso D’Alia, Rossella Pugliese e Francesco Godina (avremmo solo preferito, in alcuni, una cadenza virata più sul palermitano che non sul messinese).

Eccellente il lavoro di regia – e di luci – di Nadia Baldi, capace di far danzare, oltre che gli attori nei costumi di Carlo Poggioli, persino le scene di Luigi Ferrigno. E seguendo il tempo delle musiche di Ivo Parlati.

Uno spettacolo davvero intelligente e godibile, dunque, anche perché narra di pietanze leggendarie: “dalla cucina esalava il secolare aroma del ragù che sobbolliva, estratto di pomodoro, cipolle e carne di castrato, per gli anelletti”.

Eh, sì: parliamo di quel timballo a forma di tamburo (questo significa, in arabo, timmàla) racchiuso, come sottolinea Teresa, in una crosta di pane bene impastato. Sempre che l’artrosi

Dimmi quel che mangi e ti dirò chi sei” affermava Jean Anthelme Brillat-Savarin nel suo Physiologie du Goût, Fisiologia del gusto, del 1825, opera fondativa del mito dell’intellettuale gastronomo che aveva come sottotitolo Meditazioni di gastronomia trascendentale.

Beh, a udire elenchi e descrizioni di quel che stavano preparando cuciniera e chef per gli ospiti del ballo, si intuisce perché don Fabrizio fosse fuori misura: “l’urto del suo peso da gigante faceva tremare l’impiantito”, scrive Tomasi. E racconta anche come il nipote Falconeri lo chiamasse zione e Mariannina principone (nel testo, Cavosi scherza anche sulla lunghezza del gibus di don Fabrizio, ma non allarmatevi, si tratta del cappello a cilindro).

Volendo ancora sciupare dell’ironia potremmo aggiungere che in quelle cucine palermitane stava per consumarsi una tragica scissione proprio per opera dei monsù, avvezzi a reinventare pietanze tradizionali siciliane.

Avrebbero così corrotto l’aragonese arancinu nobilitandolo nell’italo-francese arancina: niente sugo di poveri scarti di carne, piselli selvatici, tumazzu e quarti d’uovo sodo, ma l’accentato ragout à la bolognaise, il fromage, e un riso non certo banalmente bianco ma tinto con il safran, lo zafferano. Roba da nobili, capace di far sognare.

Perché, come sosteneva Brillat-Savarin, “La scoperta di un manicaretto nuovo fa per la felicità del genere umano più che la scoperta di una stella”.

Con buona pace dell’astronomo don Fabrizio Salina.

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