Il travolgente successo de “La Stranezza” e il cuore dei teatranti siciliani
“La Stranezza”, pellicola di Roberto Andò dedicata alla nascita dei “Sei personaggi in cerca d’autore”, è uno dei più bei film degli ultimi anni e narra di due disastrosi debutti teatrali (uno autentico, uno frutto d’invenzione) in quell’Italia degli anni Venti del Novecento che diversi punti di contatto ha con l’attuale.
A chi si chiede per quali ragioni il film stia registrando uno straordinario successo di pubblico, si potrebbe rispondere che il regista, pur di vasta cultura mitteleuropea, è sempre rimasto legato alle espressioni artistiche del popolo siciliano: cunti, canti, miniminagghi, pupi, fondali che paiono carretti, maschere tragiche e comiche.
E in questo mondo ha pescato per elaborare la geniale trovata che gli ha consentito, nel film, di celare la profondità intellettuale pirandelliana sotto un’aura d’ineffabile levità, fino a mutare il ragionamento in una sorta di sentimento, apprezzabile da chiunque.
“Noi autori – fa dire a Andò a Pirandello, reso in scena da un misuratissimo Toni Servillo – abbiamo l’ambizione di rendere plausibile quello che non lo è”.
E il regista sembra aver ereditato la stupefacente capacità nel rendere semplice ciò che è estremamente complesso dal suo mentore, Leonardo Sciascia: fu quest’ultimo, autore nel 1989 di uno stupefacente Alfabeto pirandelliano, a donargli la monumentale biografia pubblicata nel 1963 da Gaspare Giudice.
Così il film ci narra come la stranezza che frulla in testa al Drammaturgo, ossia quella d’infrangere la quarta parete, gli sarebbe stata suggerita da una pittoresca rappresentazione in un teatrino di Girgenti: “La trincea del rimorso”, messa in scena da una compagnia di “dilettanti professionisti” guidata da due casciamurtari innamorati del palcoscenico, i trascinanti – eppure mai davvero sopra le righe – Valentino Picone e Salvo Ficarra.
Badate però, non è semplicemente un’invenzione, perché in realtà Andò la ricrea, la vicenda, servendosi degli strumenti della narrazione popolare ma soprattutto proponendola in forma di leggenda.
E leggendaria appare fin dalle prime sequenze l’antiquata Girgenti del 1920, luogo che è per Pirandello mediocrità, corruzione, degrado (affascinante la carrellata su un archivio municipale che pare la versione dirupata e polverosa della biblioteca di Hogwarts), ma anche paradiso degli affetti.
È in Sicilia, il drammaturgo, per incontrare, a Catania, Giovanni Verga (un bel cameo quello di Renato Carpentieri): in occasione dei suoi ottant’anni pronuncerà il discorso celebrativo. La circostanza storica è reale. Il colloquio tra i due poteva essere solo immaginato dagli sceneggiatori – con Andò Ugo Chiti e Massimo Gaudioso -, che dall’inventore del Verismo, fanno ammonire il drammaturgo: basta mettere bombe sotto la costruzione della realtà.
Ma la bomba è già nella testa di Pirandello, che vede continuamente apparirgli davanti i suoi personaggi. Dovrebbe tornare a Roma, ma per accompagnare all’ultima dimora la sua amata balia Maria Stella, è costretto a rimanere a Girgenti. E a confrontarsi con le stranezze che lo tormentano fin da quando, bambino, trovava pace appoggiando la testa sulle ginocchia della donna. Così il fantasma della balia ancora lo consola: “’U sacciu ca hai pena perché le idee non quagliano”.
È il ritardo – divino, provvidenziale, come in ogni leggenda che si rispetti – a consentire al Drammaturgo di scoprire uno scalcinato gruppo guidato dai due becchini e capace di mutare il teatro in piazza e viceversa.
Ecco, in quella Compagnia è il segreto della narrazione. È un emblema della Sicilia, dimenticata ieri come oggi, ma anche talmente umana da non aver paura delle stranezze. Anche perché ha memoria lunga, tanto da ricordare come a infrangere la quarta parete fosse stato già Plauto.
In quel teatrino di provincia, dunque, risplende un’Isola ignota ma ricca di colori, di sentimenti, di vita. Posta quasi in contrasto con Roma, dove, nel Teatro Valle, il nove maggio del 1921, al debutto di quel lavoro che sarebbe diventato una pietra miliare del teatro mondiale, Pirandello venne fischiato, deriso, aggredito da chi non aveva gradito, o non comprendeva, la rivoluzionaria prospettiva dei “Sei personaggi”.
Il mondo, però, avrebbe dovuto accettare il verdetto della Storia quando, tredici anni dopo, Pirandello avrebbe ricevuto il Nobel. Per aver reso plausibile ciò che non lo era.
Ma il film di Andò non è semplicemente plausibile, realistico, verosimile, grazie anche alla magia creata dalle scenografie di Giada Calabria, dai costumi di Maria Rita Barbera e dalla miracolosa fotografia di Maurizio Calvesi. “La Stranezza” è assolutamente autentico per la sua umanità carezzevole, affettuosa, commovente.
E, perché no?, divertente.
Se vogliamo dirla tutta, grazie al successo di questa pellicola, un popolo silenzioso e splendido che il Covid, soprattutto in Sicilia, aveva privato non solo del sostentamento, ma persino degli applausi, si prende una meritata rivincita.
Perché Andò, ne “La Stranezza”, ha saputo metterci tutto il cuore di innumerevoli piccoli teatranti, cantanti, musici isolani da sempre animati da un’incredibile passione.
“Il teatro dovrebbe essere poesia, purezza e libertà”, dice infatti il capocomico-casciamurtaru Onofrio Principato.
Così, tra i bravissimi interpreti siciliani del film non basta citare solo i nomi noti, dai decani Tuccio Musumeci e Aurora Quattrocchi (la balia), a Donatella Finocchiaro (la moglie di Pirandello), Luigi Lo Cascio, Filippo Luna, Fausto Russo Alesi, Giulia Andò, Rosario Lisma, Tiziana Lodato e Totino La Mantia.
Certo, attori “continentali” come Galatea Ranzi e Niccolò Fettarappa rendono figure più rilevanti nella narrazione, ma è un coro di straordinari solisti quello che si esibisce – con l’espressività del nostro dialetto, sottotitolato – nel teatrino dei casciamurtari: Franz Cantalupo, Domenico Ciaramitaro, Laura Giordani, Turi Greco, Antonio Ribisi La Spina, Marta Lìmoli, Sergio Lo Verde, Massimiliano Nicosia, Giuseppe Passarello, Anita Pititto, Adele Tirante, Sergio Vespertino.
I loro personaggi brillano di luce propria, come la commovente figura del babbu tratteggiata da Giuseppe Palazzolo, o quella del piccolo Lorenzo Pulizzi, che si presenta sul palco con il suo tamburo. O di Gesualdo Failla (Tano), che suscita l’ilarità generale inserendo nella sua unica battuta, un’improvvida pausa: “Non ho nessuno. Scopo e sono felice”.
Giuseppe Lazzaro Danzuso
Il trailer ufficiale del film
Le foto del film, di proprietà della produzione, sono di Lia Pasqualino