Storie di felicità negata: due novelle di Verga e Pirandello
Il bisogno della felicità, o meglio ancora, l’insopprimibile speranza che questa felicità venga raggiunta, sembra essere una necessità insostituibile. La felicità è stato uno dei più importanti temi trasversali della filosofia, da Socrate in poi, nella ricerca di un bene stabile in opposizione alle cose materiali, e lo stesso dicasi per la visione cristiana dell’esistenza, come promessa di un bene eterno. Eppure tale appagamento non di rado è stato frustrato, umiliato, deriso. Questa negazione della felicità ha trovato voce anche e soprattutto in letteratura nella creazione di personaggi offesi dagli eventi. Per ricordare un esempio molto noto, il danese Hans Christian Andersen pubblicò nel 1848 la fiaba che scandiva la lenta agonia delle ultime ore di vita di una piccola fiammiferaia, e ogni fiammifero acceso alimentava minuti di sopravvivenza al gelo facendo altresì scaturire nella sua mente immagini di una vita migliore, purtroppo in modo invano.
Guardando alla Sicilia tra fine Ottocento e inizi Novecento, le tristi condizioni dell’isola, la povertà e l’analfabetismo presenti malgrado l’unificazione dell’Italia, offrivano continua ispirazione al tema della felicità tradita e forse irraggiungibile. Giovanni Verga avrebbe definito “Vinti” i perdenti in partenza, capaci di sopravvivere mantenendosi in una condizione di perenne stasi, aiutandosi e confortandosi a vicenda (l’ideale dell’ostrica che Verga tratta nella novella “Fantasticheria” e nel romanzo “I Malavoglia”) pena l’annientamento nel tentativo, incosciente, perché vano, di cambiare alla ricerca di una vita migliore. Luigi Pirandello andrà molto più in avanti, definendo questa corazza quasi una necessità sociale, la “maschera” che permette di conservare integro il proprio posto senza perdersi nel nulla (come accade al protagonista del suo romanzo “Il fu Matia Pascal”). In entrambi gli scrittori siciliani, i personaggi che subiscono questo destino sono deboli, forse i più deboli in assoluto. Tra le tante pagine scritte in proposito, questi individui fragili che non trovano rispetto e difesa sono i protagonisti delle due novelle “Nedda” (1874) di Verga e “Servitù” (1914, contenuta nella raccolta “Candelora”) di Pirandello, incentrate su minute figure femminili che per un breve lasso di tempo trovano sollievo nel miraggio di un cambiamento, ma in entrambi i casi tale miraggio svanirà ben presto. Entrando nel particolare dell’analisi, Nedda è una raccoglitrice di olive, tanto povera da essere sfiorita già appena trascorsa l’adolescenza:
<>
Nedda troverà la svolta nell’amore per il contadino Jano e nella precoce maternità, ma funeste disgrazie si abbatteranno su di lei (l’incidente mortale di Jano debilitato per la malaria, e poi la morte della figlioletta troppo gracile per sopravvivere a lungo), così da farla ritornare completamente sola, amareggiata al punto da giustificare la scomparsa della propria creatura come un provvidenziale sollievo per il male che altrimenti l’avrebbe inevitabilmente colpita nel corso della vita:
<>
Nenè è la protagonista della novella di Pirandello, “Servitù”: è la figlia della domestica di una famiglia facoltosa, a sua volta con una figlia, Dolly, ovviamente viziata tra lussi e costosi giocattoli. Trovandosi ammalata, la piccola Dolly regala la “marchesina Mimì”, una delle sue sette bambole, a Nenè, che finalmente può sognare di vivere diversamente, ma, e in ciò sta la novità di Pirandello, Nenè vuole essere la serva della bambola, prepararle bagno e colazione, cambiarle i vestiti e immaginando di portarla a galoppare, mantenendosi quindi in una condizione subalterna e anzi struggendosi di non essere all’altezza del lusso a cui era abituata la bambola:
<>
Ma la realtà, in Pirandello come in Verga, irrompe d’improvviso con la propria brutale violenza, e Il padre di Nenè, ubriaco, si infuria per questa assurda novità in casa propria e spezza la testa alla bambola:
<>
Se dunque appare chiaro come la novella di Verga si inserisca in quella corrente verista priva di ottimistiche utopie in opposizione alle “magnifiche sorti e progressive” su cui ironizzava Giacomo Leopardi nel noto verso della “Ginestra”, meno lineare risulta la riflessione sul comportamento della piccola Nenè che viene accusata dal padre violento di fare la “signora” giocando con una bambola di lusso, ma in realtà la piccola giocava a fare al “serva” della bambola, anzi lo era diventata letteralmente, come dimostra il dialogo immaginario a due voci tra l’altezzosa bambola Mimì e l’obbediente Nenè:
<>
Una condizione di interiorizzazione dello stato di subordinazione e di sostituzione della felicità autentica con una finzione, un giocare alla felicità che rimane tale, senza una concretezza reale. Un surrogato che potrebbe anche perdurare se un evento traumatico non lo infrangesse. La Nedda di Verga vede scomparire uno dopo l’altro le sue autentiche possibilità di rivalsa, perché una sorta di crudele legge del destino, sembra decretare che povera nacque e povera morirà. La Nenè di Pirandello invece avrebbe potuto accontentarsi di essere felice con la bambola di lusso che le era stata donata, accettare perciò una interpretazione non autentica anzi distorta della felicità, uno pietoso mezzo per illudersi di essere finalmente felici. Il violento gesto iconoclastico del padre pare decretare che la figlia non avesse neppure il diritto di sognare. Un vero dramma nel dramma, la distruzione dell’illusione salvifica. Posizione molto radicale quella di Pirandello, che pare anticipare di decenni molte analisi che sociologi e filosofi svilupperanno dalla seconda metà del Novecento contro la società del falso benessere. Ma Pirandello, come anche Verga, guardano alla tragedia dell’uomo più che alla costruzione di teorie critiche della società, ed è per questo che le loro opere costituiscono un universo di personaggi che soffrono perché tentano di ribellarsi, invano, alla mancanza di una piena e duratura felicità.