Viaggio tra le parole

La moderna Inquisizione

Nel corso dei secoli l’arroganza della prevaricazione ha infettato, come un virus letale, poteri politici e religiosi che, trincerati dietro false maschere di perbenismo e moralità, hanno tentato di annientare la libertà di pensiero di chiunque potesse metterli in discussione.
Tutta la storia dell’umanità è intrisa di ingiustizie e di abusi, che hanno rivelato con cruda ferocia a quanto l’animo umano possa arrivare, a quanto l’uomo sia capace di compiere pur di affermare se stesso a scapito dal proprio simile. Ma al tempo stesso è intrisa del coraggio, della determinazione e della tenacia di chi ha opposto il valore inappellabile e inalienabile della propria libertà di pensiero.
Realtà umana, che traspare in tutta la sua forza nel libro del 1964 di Leonardo Sciascia “Morte Dell’Inquisitore”. Un’inchiesta storica in cui lo scrittore siciliano ripercorre la triste vicenda del frate di Racalmuto, Diego La Matina (1622-1658) che fu vittima della follia repressiva che contraddistinse l’Inquisizione spagnola in Sicilia, tra il XV e il XVIII secolo che, con la connivenza del potere locale, condusse al rogo 234 vittime.
Sciascia, basandosi sui pochi documenti a disposizione – nel 1783, un anno dopo l’abolizione dell’istituto dell’Inquisizione, l’archivio del tribunale a Palermo fu incendiato per ordine del vicerè Caracciolo – scrive che fra Diego la Matina fu arrestato con l’accusa di eresia per ben tre volte, ma era stato liberato poiché aveva abiurato. Ma nel 1656 fu arrestato di nuovo e condotto alle carceri di Palazzo Steri a Palermo, da dove riuscì a fuggire ma solo per un breve periodo. Durante quest’ ultima carcerazione subì incessanti torture che, logorandolo, lo indussero a scagliarsi contro il suo carnefice, monsignor de Cisneros, e a colpirlo con i ferri che aveva ai polsi, uccidendolo.
Questo suo ultimo atto gli valse la pena di morte. Così due anni dopo fu preparato uno spettacolo pubblico, con palchi addobbati, invitati illustri e banchetti per celebrare la sua condanna.
Fu condotto legato a una sedia e imbavagliato davanti al tribunale dell’Inquisizione presieduto da Los Cameros e gli fu letta la sua colpa: ERETICO.
E, poco prima di morire, a dimostrazione che non si era piegato, pronunciò una frase emblematica: Dunque Dio è ingiusto.
Parole forti che racchiudono in sé, tutta la sua disperata consapevolezza dell’ingiustizia imperante nella società, nelle leggi che la regolavano e nella religione che agiva con ferocia proclamandosi invece una fede di carità e amore
Le menzogne proferite dagli inquisitori, rivelano tutta la loro nefandezza nell’accusa mossa al frate di essere un uomo rozzo, incolto e ignorante, quando invece egli era perfettamente in grado di sostenere discussioni dotte come nell’ultima notte con i nove teologi che tentarono di farlo abiurare. La loro ipocrita mistificazione della realtà mostra con evidente chiarezza il modus operandi della Santa Inquisizione, una struttura ben organizzata e disposta a tutto pur di schiacciare ogni forma di indipendenza intellettuale.
Ma, come scrive Sciascia, fra Diego rimase immutato e fermo nel suo “Tenace Concetto”, e sostenne con determinazione una sua concezione della vita e della religione anche se in contrasto con quelle che la Chiesa voleva imporre.
Attraverso la sua storia Sciascia, mise in primo piano la fierezza di un uomo che non ebbe paura di far sentire la sua voce, che “agitò il problema della giustizia” contro le ingiustizie sociali, contro le iniquità e contro le usurpazioni dei beni e dei diritti, in un momento di forti ingiustizie. Ma soprattutto un uomo che pur “identificando il proprio destino con quello dell’uomo e la propria tragedia con quella dell’esistenza” mantenne alta la propria dignità, un “eretico non di fronte alla religione ma di fronte alla vita” così come aveva fatto cinquant’anni prima Giordano Bruno che nel 1600 era stato arso al rogo a Roma per non aver mai ritrattato le sue idee.
Fra Diego, piccolo frate del nostro passato, si eterna in un grande uomo ribelle e diviene per noi siciliani, simbolo, del nostro desiderio e bisogno, al tempo stesso, di indipendenza. La sua vita e le sue azioni, emergono dalla nostra storia e ribadiscono, in una società odierna, offuscata dalle nebbie dell’appiattimento ideologico e culturale, che ognuno di noi non può e non deve essere privato della propria libertà di pensiero, un diritto imprescindibile per la nostra identità. Anche se oggi, sempre più spesso, ci ritroviamo imbrigliati nella fitta rete tessuta dalle moderne forme di inquisizione, generate da poteri politici chiusi nelle loro ideologie di sopraffazione e da logiche economiche di profitto, che, in modo subdolo si insinuano nella società, si travestono di democrazia e di forme di libertà di pensiero, ma in realtà strisciano viscide attraverso i mass media, le scuole e sgretolano in modo impercettibile valori e ideali fino a trasformarsi in convincimenti omologati delle masse inconsapevoli, in opinioni che intorpidiscono lo spirito critico, che indeboliscono la capacità di giudizio e che mirano ad annullare ogni forma di dissenso. Le nuove forme di inquisizione agiscono nell’ombra e, come bestie fameliche, divorano la nostra dignità di uomini liberi.
Perché come scrisse Leonardo Sciascia “Mi sono interessato all’Inquisizione poiché questa è lungi dal non esistere più nel mondo”.

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