La venuta del Re Vittorio Emanuele III a Sortino
Per motivi di lavoro anni fa mi trovavo in giro per l’Italia condotto, si fa per dire, presso gli immobili tanto di privati cittadini quanto di enti pubblici. Siffatta condizione mi dava la possibilità di poter scambiare informazioni; però la domanda ricorrente finale che mi veniva fatta era sempre equilibrata dal rilevare l’accento siciliano, e a cui seguiva la mia risposta, sono di Sortino, provincia di Siracusa, in Sicilia. Ebbene molti di queste persone conoscevano il mio paesello ubicato in bassa montagna o alta collina, aggiungendo al loro interminabile discorso sulla bellezza della Sicilia, pregi e difetti, che «sono stato a Pantalica e la Valle dell’Anapo, conosco il vostro miele e Pizzolo, o addirittura seguivo il Trofeo Pantalica le cui riprese mostravano gli infiniti e meravigliosi iblei, come la Valle dell’Anapo, finanche alla cronoscalata automobilistica». Li per li rimanevo quantomeno stupito e altrettanto gioioso, ed era come se giocassi dentro casa in un terra non mia che ha altre abitudini tradizioni, costumi, innesti sociali. Allora rivagivo parti del discorso per giungere a quella poesia che reputo meravigliosamente stupenda, Pantalica, il Fiume Anapo, Sortino, gli Iblei, di Salvatore Quasimodo, il quale trascorse tante delle sue giornate passeggiando tra i viottoli scoscesi. L‘Anapo gli ha ispirato queste rime:
Alle sponde odo l’acqua colomba, Ànapo mio; nella memoria geme
al suo cordoglio uno stormire altissimo.
Sale soavemente a riva, dopo il gioco coi numi,
un corpo adolescente: mutevole ha il volto,
su una tibia al moto della luce rigonfia un grumo vegetale.
Chino ai profondi lieviti ripatisce ogni fase,
in sé ha la morte in nuziale germe.
‒ Che hai tu fatto delle maree del sangue, Signore? ‒ Ciclo di ritorni
vano sulla sua carne, la notte e il flutto delle stelle.
Ride umano sterile sostanza In fresco oblio disceso
nel buio d’erbe giace: l’amata è un’ombra e origlia
nella sua costola. Mansueti animali,
le pupille d’aria, bevono in sogno.
Se dovessi iniziare un viaggio a ritroso attraverso la memoria dell’infanzia, di quegli incontri direi che mi è necessario parlare della stazione di Necropoli Pantalica in primis, luogo ricco di calcareniti e fauna ancora tutta da scoprire (i botanici olandesi ed europei hanno iniziato a quantificare specie rare). Mia madre mi narrava che i cittadini giungevano presso la stazione di Giambra affinché il treno potesse rifornirsi di acqua, per poi proseguire verso le stazioni di Cassaro – Ferla, di Palazzolo Acreide, di Buscemi sino al bivio Giarratana, e via proseguendo per la tratta Ragusa e Vizzini. Dagli archivi storici risulta che la ferrovia fu inaugurata il 19-7-1915, circa 19 anni prima che nascesse mia mamma, e dopo oltre trent’anni di accese discussioni che non mancano mai in questa parte di entroterra (il primo progetto di massima redatto da Luigi Mauceri è del 1884), con la attivazione del primo tronco Siracusa – Solarino, la ferrovia Siracusa – Ragusa – Vizzini venne interamente attivata al servizio pubblico il 26-7-1923 e raggiunse il massimo della sua valorizzazione dieci anni dopo nel 1933 (un anno dopo che nacque mio padre); quando il Re Vittorio Emanuele III vi si recò, facendo uso del trenino alla Necropoli di Pantalica, i concittadini narrano che prima dell’arrivo del Re Vittorio Emanuele III, i grandi usavano dire ai piccoli quando li rimproveravano, e a mo’ di minaccia, che li mandavano a dormire alla stazione, poiché coloro che non avevo casa dormivano la in quel luogo riparato, ed erano in diversi. Rammento che Sortino aveva tanti orfanelli, difatti la Via L. Capuana dalla sua origine dal Convento dei Frati Cappuccini della Via Roma, è indicata come la Via degli Orfanelli essendovi una struttura di ricovero, laddove fu posta una nicchia voluta a suo tempo dal Ministro del Convento dei Cappuccini in onore agli orfanelli e ai poveri di Sortino a cui si era dedicata la famiglia Gurciullo in asservito silenzio spezzato solo dalla confessione di una signora in punta di morte, la quale confidò al Ministro gli aiuti ricevuti proprio dalla famiglia. Questo fatto colpì molto il Ministro che si adoperò affinché’ quell’angolo di strada fosse benedetta dalla Madonna. La nicchia pare risalga al periodo di Don Andrea Gurciullo.
La nobile venuta del Re per gli abitanti di Sortino fu un evento eccezionale tale che la stazione fu totalmente ripulita e ricolorata e i “dormienti” sfrattati per qualche notte e condotti all’ospedaletto, struttura tuttora esistente che svolge da plesso per l’Ufficiale sanitario, laddove il Re poté visitare Pantalica grazie ad un asino donato da un umile cittadino (‘u sceccu), storia avvincente raccontata in un recentissimo libro dall’Avv. Dionisio Mollica “Sortino 1846-1946 ~ Storia e Produzione Urbana”.
Eppure il Re non visitò la cittadina di Sortino, indubbiamente quell’evento fu la prima vera circostanza che fece conoscere Pantalica oltre confine isolano. Sortino era già conosciuta poiché’ era stato il Paese dopo Palermo (gli storici dicono anche prima di Palermo, solo che Palermo essendo il Capoluogo di Regione non poteva subire tale affronto) ad essere illuminato con l’energia Elettrica grazie all’impianto idroelettrico installato. Durante la Seconda Guerra Mondiale, la ferrovia venne requisita dalle truppe alleate per il trasporto di uomini e materiali verso la roccaforte di Palazzolo successivamente conquistata ma con gravissime perdite, tra l`1 ed il 5 agosto 1943. Se durante la guerra per l’appunto la ferrovia fu utilissima, purtroppo dopo la fine della belligeranza all’aprirsi di nuovi scenari tecnologici il 30- giugno-1956 circolò l’ultimo treno, cedendo il passo ai mezzi di trasporto su strada, ovviamente su strade non adatta. Non fu una scelta che piacque molto alla cittadinanza interessata, ma fu il primo appiglio per cui i politici locali non si appassionarono più di tanto a tematiche più in generale fuorché ai loro interessi, interessi tutt’ora di moda come narravano i vecchi ogni qualvolta fossero chiamati ad esprimersi sulla ferrovia, «nun sunannu ‘u trenu nun sonunu chiu’ aricchi e nun si rapunu ‘chiu’ ucchi». Furono smontate e portate via tutte le traversine di legno, i binari, i bulloni e rimase solo l’attuale sentiero bianco, acquistato in seguito dalla provincia e, per anni, transitato dalle automobili almeno sino a quando la Regione Sicilia non vi insediò il Corpo Forestale, tramite accordo concessione del Comune di Sortino proprietario di gran parte di questo territorio, Decreto 25 luglio 1997 n. 482. Ed è questo periodo che ricordo assai bene poiché con bici e poi motorini ci avviavamo ragazzini al fiume Anapo per fare i bagni. Taluni miei amici addirittura vi campeggiavano in estate.
Ma le nostre esplorazioni si spingevano ben oltre e verso il Palazzo del Principe ἀνάκτορον. Da ragazzino non capivo molto dell’importanza del luogo ma crescendo compresi che gli storici dell’antico abitato scrivevano che è costituito probabilmente da agglomerati di capanne in pietrame e terra o legname, ma di cui conosciamo solo le rovine di una grandiosa costruzione in blocchi poligonali, un tempo nota come “il palazzo del signore” (in greco antico ἀνάκτορον), nella quale si è riconosciuta l’ἀνάκτορον di un principe locale ἄναξ, risalente alla prima fase di vita della città ed in qualche modo riadattato dai Bizantini. Nel vano maggiore meridionale del palazzo Paolo Orsi vi sono tracce di una fonderia di bronzi; da ciò fu portato a ritenere che la lavorazione del metallo fosse nell’antica comunità una prerogativa del capo. Per la sua unicità nel panorama della Sicilia protostorica, l’ἀνάκτορον di Pantalica, in gran parte di struttura megalitica, venne dallo stesso Orsi fondamentalmente attribuito a maestranze micenee al servizio del principe barbaro. Ultimamente, in prossimità dell’ἀνάκτορον sono stati messi in luce i resti di antiche strutture monumentali, che nella loro articolazione sembrano definire un’acropoli fortificata in cui il palazzo principesco doveva inserirsi come elemento essenziale. Si tratta difatti di tre cinte murarie, l’una, munita di torre aggettante, congiunta ai due lati maggiori del palazzo e sviluppatesi lungo i margini del pianoro, le altre due erette a sbarramento del pendio sottostante. È ragionevole asserire che i quartieri più densamente popolati dell’insediamento montano fossero dislocati lungo le terrazze meridionali, in lieve pendio e riparate dai freddi venti di settentrione.
Necessiterebbero altri scavi piu’ mirati per potere localizzare l’antico impianto urbano e ricostruirne le caratteristiche, ma per quel che concerne nuovi fondi meglio lasciar perdere questa pagina dato che se ne parla da anni ma senza soluzione. Per il momento, dobbiamo attenerci all’identificazione dei resti di un santuario di Demetra e Kore nel pianoro sottostante l’anàktoron; da quel che risulta i resti testimoniano la continuazione in età classica di un culto agreste dell’antica Hybla da parte di pastori e contadini, qui, sotto la dimora del capo, doveva essere almeno il centro della vita religiosa della città. Oltre al santuario, di età greca gli studiosi delle opere di fortificazione rimaste possono adempierne a poche informazione, e poste a sbarrare l’angusta sella di Filiporto, costituite da un trincerone rafforzato da un muro a grandi blocchi, sito lungo la dorsale mediana che percorre longitudinalmente tutto l’altopiano di Pantalica, ovvero costruito trasversalmente rispetto alla dorsale stessa laddove è particolarmente stretta, (non più larga di una trentina di metri), e l`Anàktoron la sbarra quasi completamente con la sua lunghezza, affacciandosi col suo lato breve sul pendio meridionale. Press’a poco nel luogo in tempi recenti era stata prevista una passerella per i turisti ma non se ne fece nulla se non corsi e ricorsi da parte del Comune per non farne nulla. Eppure dai testi è riportato che un ponte era esistito probabilmente poi andato nel tempo o per qualche terremoto.
Il punto in cui sorge l`Anaktoron non è peraltro il più dominante della dorsale ma vi è quasi sottomesso: il maggior rilievo che lo sovrasta da Occidente raggiunge la quota di m. 472, mentre la quota del palazzo è di circa m. 408 s.l.m. Il vano meridionale (o vano A), è di grandiosa struttura megalitica, misurante all’esterno m. 11,60 di fronte, e all’interno m. 8,50 x 8, un vano, cioè, della superficie utile di almeno 68 mq. Qui Paolo Orsi scoprì le testimonianze di una fonderia di bronzi, rappresentate da una zona carboniosa, da frammenti di strumenti di bronzo destinati ad essere rifusi e di forme per la fusione.
Sul lato lungo occidentale del palazzo si succedono tre vani perfettamente identici fra loro, tutti misuranti all’interno m. 5,50 x 5,80 e tutti e tre aprono verso l’esterno, con una porta sempre di dimensioni identiche (luce m.1,40) al centro della parete. Il vano E è identico ed è contrapposto al vano F ma entrambi accessibili solo dall’esterno. L’edificio continuava ancora a NO quanto di E tanto di F con altri due vani, G e H, pressoché identici ad essi. Questa parte del palazzo è la meno conservata e la più lacunosa, direi la piu’ abbandonata. Vi potevano essere anche altri due vani I ed L anche se di essi rimangono solo lievi tracce. Solo la parte meridionale del palazzo può essere considerata un alloggio in senso moderno della parola. E` cioè costituita da vari ambienti (A, C, D) tutti comunicanti attraverso il corridoio B e quindi di uso differenziato fra loro. I quattro vani costituenti il corpo quadrato settentrionale, non erano, invece, fra loro in comunicazione e si aprivano solo verso l’esterno. È possibile che fossero quindi dei depositi o magazzini per la conservazione delle provviste. La regolarità della pianta, la quasi assoluta identità di misure di diversi vani, l’uniformità della struttura muraria indicano che ci troviamo di fronte ad una struttura tutt’altro che primitiva, opera evidentemente di tecnici esperti, perfettamente esposta a Sud. Oggi l’Anaktoron ci appare inserito in un vasto complesso di sistemazioni monumentali di cui esso rappresenta senza dubbio l’elemento essenziale e che probabilmente sono subordinate ad esso. Gli scavi eseguiti da Luigi Bernabò Brea a partire dal 1962 sino al 1971, hanno portato alla luce grandiose strutture monumentali come i muraglioni sbarranti il pendio sottostante l`Anàktoron.
Sebastiano Tusa scrisse che “il segreto della resistenza di Pantalica all’irreversibile flusso della storia va ricercato nella solidità della sua struttura socio-economica e nel riuscito rapporto ecosistemico con l’ambiente circostante che permisero ai suoi abitanti di vivere e prosperare a lungo senza alcun bisogno di apporti esterni. Un vero e proprio territorio autonomo che doveva estendere il suo controllo su quasi tutta la zona collinare e montuosa degli Iblei: da Rivettazzo al vallone San Giovanni di Ferla, dalla Pinita di Palazzolo Acreide al Bosco Rotondo di Buscemi, per citare alcuni dei centri satelliti appena identificati. Una sorta di piccolo Stato che seppe sfruttare efficacemente le risorse dell’ambiente ibleo che aveva nella cava il suo modulo ecosistemico di base.”
Sergio Frau sul giornale ” la Repubblica ” (2003), riportò: L’inizio di tutto. Dell’Italia nuova, tutta sui monti, e d’improvviso. Con le coste che si svuotano, e i monti che s’infiammano di forni: e gli Umbri, e i “Villanoviani”, e i Liguri dell’interno, e le genti di Lucania, e gli Alpini tecnologicamente avanzati di Val d’Aosta, di Trento, del Friuli… Persino Pantalica, la Valle delle Meraviglie nel cuore della Sicilia, decolla a nuova vita proprio allora. Il Grande Enigma, insomma…Strano, però… Strano, ma vero: frughi dappertutto, perquisisci metri di pubblicazioni, passi al setaccio un secolo di etruscologia, e mica lo trovi mai qualche studioso che si sia chiesto il “perché” un Popolo di Mare, come quello degli Etruschi, si sia blindato su per monti e valli d’or, spesso lontano lontano dal mare. Come ne avesse terrore. Apparsi d’improvviso, dal 1100 a. C. in poi, sulle alture della Penisola – dalle Alpi, alle alture appenniniche di Liguria, Toscana, Umbria, Lazio, fin dentro al Materano e alla Sicilia, con la Pantalica del Mille a.C. – quei primissimi nuovi italiani si misero tutti insieme a far roba nuova, mai vista prima su quelle alture lontane lontane dal mare. E lo fecero, con nomi, e riti, e vite, e morti, e tombe differenti da quel che era sempre stato: grandi mura d’improvviso; fuoco e ferro (lì dove non si era neppure mai visto quel bronzo protagonista dell’età precedente, nel II millennio a.C.); città organizzate invece di insediamenti accampati e straccioni; urne cinerarie troncoconiche, poi, invece dei dolmen e delle inumazioni tradizionali dei loro padri. Genti che, ormai, cominciavano a far la Storia, quelle, insomma.
Pantalica è descritta dal anche Fazello in “Historia di Sicilia” nel 1558, come “Una città grande e piena di caverne, cavate artificiosamente, dove si vede altro che una porta della Città rivolta verso Ferla, una fortezza rovinata, una Chiesa anch’essa rovinata e oliveti
Ritornando al viaggio del Re, una rara foto lo mostra mentre sale a bordo del treno, fermo ad aspettarlo con un impettito capostazione a fianco. Si vede un uomo meditare mentre gli passa davanti il Re, tanto da restarsene immobile e preparando un saluto militare. È insolito che il sovrano, e con lui tutti i nobili, i professori e i signoroni che aveva visto passare in stazione, si fossero spostati sino a questo luogo remoto. Tuttavia, da quando era entrata in funzione la linea a scartamento ridotto che collegava Siracusa agli Iblei, giungendo fino a Vizzini, l’escursione alla misteriosa necropoli era diventata di moda.
Nel 1939, era così popolare che la società che gestiva la linea ferroviaria pubblicò un opuscolo su Pantalica e il fiume Anapo che scorreva ai piedi della necropoli e il cui tracciato era stato seguito per la costruzione della linea ferrata.
Per la verità, all’epoca, come detto di Pantalica non si sapeva granché, nonostante l’impegno a lungo profuso dall’archeologo Paolo Orsi, il primo a esplorare questi luoghi affascinanti, e nemmeno oggi, in effetti, si sa tanto di più.
Non si sa, ad esempio, dove fosse esattamente il villaggio (identificato adesso con la mitica Hybla) in cui, nell’Età del Bronzo, si stabilirono prima i Sicani e subito dopo i Siculi, né come fosse, visto che è giunto fino a noi solo il basamento di un edificio con una mezza dozzina di stanze, risalente a dodici – tredici secoli prima di Cristo, il cosiddetto Anaktoron (palazzo del principe di cui la foto sopra). Non si conoscono i luoghi di culto né le usanze, se non a grandi linee. Non si sa come vivessero, anche se si presume che coltivassero la terra e che allevassero api, attività, quest’ultima, nella quale devono esser stati particolarmente bravi e che è proseguita fino ai giorni nostri: il miele ibleo (Sortino è per eccellenza la Città del Miele tantoché ogni prima settimana di ottobre si svolge la relativa Sagra) viene citato con ardente golosità da Plinio, Teocrito e altri celebri autori. Soprattutto non si sa come abbiano fatto gli antichi abitanti di Pantalica/Hybla a scavare nella roccia 5000 tombe a grotticella senza l’aiuto di attrezzi metallici, creando la necropoli più grande d’Europa, ettari ed ettari di pareti calcaree a picco sul fiume Anapo, sforacchiate da migliaia di cavità, orbite di nero solido che interrompono il candore della pietra e i ciuffi di vegetazione, un ambiente più unico che raro. Questa necropoli è la più grande d’Europa, ed è oggi la più importante testimonianza del piccolo regno siculo di Hybla, del quale si conosce il nome di un unico re, Hyblon, il quale nell’VIII secolo, concesse a dei coloni greci un lembo del proprio territorio perché vi costruissero una polis, Megara Hyblea. Sul momento, a questo Hyblon i greci dovettero sembrare innocui, e di certo dovette essere ben contento che il nome del suo regno venisse celebrato in quello del villaggio dei nuovi arrivati, ma la sua valutazione si rivelò clamorosamente errata: neanche cent’anni dopo, furono proprio coloni greci, provenienti da Siracusa, a fondare Akrai e a decretare la fine di Hybla. Una fine definitiva e traumatica: dell’insediamento siculo non rimase nulla e per lungo tempo nessuno venne a vivere da queste parti. Solo in epoca bizantina alcuni gruppi di persone vi si stabilirono, come testimoniano i resti di abitazioni e di piccole chiese rupestri – l’oratorio di San Micidario, di San Nicolicchio e del Crocifisso, con qualche traccia di affreschi – realizzati allargando alcune tombe dell’Età del Bronzo, ma dopo di loro il luogo venne via via abbandonato. Nel Duecento non c’era più nessuno e la zona rimase più o meno deserta se non sfruttata da pastori e contadini, fino a quando, nel 1915, iniziarono i lavori per la ferrovia (dismessa e smontata nel 1956). Oggi il tracciato del treno è una lunga strada bianca che si snoda lungo il corso dell’Anapo, un nastro lucentissimo che scorre fra pozze e cascatelle immergendosi fra platani, pioppi, salici e cespugli verdeggianti. È il principale percorso escursionistico per chi vuol conoscere questa che oggi è una delle riserve naturali più grandi e interessanti della Sicilia orientale per potere ammirare la bellezza dell’ambiente, osservare una quantità di uccelli e visitare un paio di cavità naturali, tra cui la Grotta delle Meraviglie e quella dei Pipistrelli. Grotte da parte mia visitate sino ad un certo punto poi me ne sono tornato indietro perché roba da speleologi. La Necropoli si trova appena più su da cui la si può osservare dalla strada che si snoda a mezz’altezza nella cava. Fra euforbie, oleandri e macchie di fichi d’India e una variegata vegetazione, il suono di grilli, rane ecc., lo sguardo spazia liberamente sulle tante grotticelle artificiali della necropoli. L’UNESCO nel 2005 fa stabilì che questo posto debba essere uno dei Patrimoni dell’Umanità, cosi fu. Oggi è visitato da migliaia di turisti di ogni parte del mondo, ammettendo che è comunque un turismo di transito a Sortino perché’ nessuna amministrazione succedutasi negli anni è riuscita a calamitare il turismo idoneo ad uno sviluppo economico non indifferente, lasciando un vuoto che si spera un giorno sarà colmato.
P.S. (Per il presente articolo mi sono avvalso della consultazione di alcuni siti)