Italia in attesa di storia: Vittorio Emanuele III tre anni dopo
Il Re che venne dal mare
Tre anni fa arrivò in Italia la salma di Vittorio Emanuele III, sul trono dal 29 luglio 1900 al 9 maggio 1946. Era tumulata nella Chiesa di Santa Caterina ad Alessandria d’Egitto, ove il re morì il 28 dicembre 1946. Giunse a Vicoforte, in provincia di Cuneo, Vecchio Piemonte, verso le 12 del 17 dicembre 2017, una domenica. Cielo azzurro, neve abbacinante. Avvolto in tricolore con scudo sabaudo il feretro fu portato a spalle nella Cappella di San Bernardo, cuore del Santuario-Basilica voluto quale Mausoleo della Casa da Carlo Emanuele I, duca di Savoia dal 1580 al 1630.
Lo attendeva la salma della consorte, la regina Elena nata principessa del Montenegro, sposata nel 1896, madre di quattro figlie (Jolanda, Mafalda, Giovanna e Maria) e del principe ereditario, Umberto, re dal 9 maggio al 13 giugno 1946. Rimase sovrano sino alla morte (Ginevra, 18 marzo 1983), perché non riconobbe mai l’avvento della repubblica. Ritenne illegale l’assunzione delle funzioni di Capo dello Stato da parte di Alcide De Gasperi, sorretto da tutto il governo, a eccezione di Leone Cattani. Avrebbe potuto resistere al “gesto rivoluzionario” (come egli scrisse) o al “colpo di stato” (come dissero altri), arroccandosi nel Quirinale o riparando in altra terra del regno oppure protestare e lasciare il suolo patrio, senza riconoscere il “fatto compiuto” né abdicare. Preferì la seconda via per risparmiare una guerra civile a un Paese che ne aveva alle spalle una durata due anni, fidando nella certezza di una “riconciliazione”.
Lacerata in fazioni che contavano su appoggio militare di potenze ormai con le armi al piede all’indomani della “cortina di Ferro” da Stettino a Trieste, l’Italia era sotto l’incubo del Trattato di pace, che De Gasperi aveva implorato non fosse reso noto perché duramente punitivo nei confronti del contributo dato dal Paese alla vittoria delle Nazioni Unite e della stessa non sempre limpida “guerra partigiana”. Quanto il Trattato fosse inaccettabile venne confermato a Parigi il 10 febbraio 1947, quando il rappresentante di Roma, Antonio Meli Lupi di Soragna, lo firmò con la propria stilografica e impresse sulla ceralacca lo stemma dell’anello di famiglia.
La salma della Regina era giunta a Vicoforte verso le 18 del giorno 15 precedente, recata con un furgone da Montpellier ove la mattina presto il feretro era stato estumulato e deposto in una “custodia” appositamente approntata. Affiancato dal rappresentante della Casa, nella breve cerimonia di commiato, convocate televisioni, il sindaco d’Oltralpe vi appose una coccarda francese. Alla sua tumulazione presenziarono il Rettore del Santuario, don Meo Bessone, vicario diocesano, il sindaco Valter Roattino, il conte Federico Radicati di Primeglio per Casa Savoia e uno studioso. Nel gennaio 2013, di concerto con la Principessa Maria Gabriella di Savoia, aveva chiesto al vescovo di Mondovì, Luciano Pacomio, teologo e catechista insigne, se le salme dei sovrani che avevano vissuto insieme mezzo secolo e da 65 anni erano sepolte non solo in due città lontane ma addirittura in due diversi continenti potessero essere congiunte proprio nel Mausoleo voluto da Carlo Emanuele I. La risposta era stata affermativa. Era tempo di pietas e di riflessione.
Diverso progetto era stato coltivato da altri, che per vari motivi non avevano raggiunto lo scopo. Al termine di un lungo iter preparatorio, in quel dicembre di tre anni fa il proposito della Casa fu coronato: traslazione e congiungimento delle salme “in Italia”.
Come noto, dopo la proclamazione del Regno d’Italia, approvato dalle Camere il 14 marzo 1861 e all’indomani dell’annessione di Roma, i Re non ebbero nella Capitale una propria “Tomba”, come del resto non ebbero una reggia nuova. Abitarono il Palazzo dei Papi sulla sommità del Quirinale, oggi Presidenza della Repubblica. Alla morte di Vittorio Emanuele II, confortato da monsignor Valerio Anzino, come ha documentato Aldo G. Ricci, sovrintendente emerito dell’Archivio Centrale dello Stato, preoccupazione precipua del governo Depretis, con Francesco Crispi all’Interno (entrambi massoni), fu di dargli degna sepoltura in Roma. Nella Basilica di Superga, sovrastante Torino, riposavano i Re di Sardegna: una storia superata dall’avvento dell’Italia. Perciò le spoglie di Vittorio Emanuele II, morto nel 1878, a soli 58 anni, furono deposte al Pantheon, con l’insegna “Padre della Patria”, anziché “Re d’Italia”, per non esasperare il conflitto con Pio IX che, come i suoi successori sino all’11 febbraio 1929, non riconobbe la debellatio dello Stato Pontificio del 1870 e dal 1860 scomunicò Vittorio Emanuele II, Cavour e tutti i loro ministri e collaboratori.
Nel 1885, un anno dopo il grande pellegrinaggio nazionale al Pantheon, ebbe inizio la costruzione dell’Altare della Patria, possibile Mausoleo dei Sovrani. Il Vittoriano, tuttavia, era lontanissimo dal compimento quando Umberto I, scampato a due attentati nel 1879 e nel 1897, fu assassinato a Monza il 20 luglio 1900 a soli 56 anni. Fu sepolto a sua volta al Pantheon, ove nel 1926 lo raggiunse la Regina Margherita. Solo nel 1927 l’Altare della Patria ebbe compimento. Dal 1921, però, vi riposava il Milite Ignoto, simbolo della Vittoria sorta dall’unione sacra tra la Casa regnante e il popolo italiano.
Nell’Italia repubblicana quale poteva dunque essere il luogo propizio per congiungere le Salme di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena? Qualunque lembo dell’Italia che nel 1924, con l’annessione di Fiume, conseguì la quasi completa coincidenza dei suoi confini statuali con quelli geografici, pur senza Corsica, ceduta alla Francia dalla repubblica di Genova nel 1768, Malta occupata dagli Inglesi nel 1798, e contea di Nizza, ceduta alla Francia sin dagli accordi di Plombières tra Cavour e Napoleone III (1858) con trasferimento legittimato da plebiscito nel 1860.
Vicoforte era uno dei tanti luoghi possibili, appunto; ma aveva il pregio di essere originariamente proprio un mausoleo sabaudo, nel cuore della Provincia Granda che i Savoia vivevano quale seconda “culla” della Casa, tanto che Vittorio Emanuele III scelse il castello di Racconigi per la nascita del principe ereditario (1904) e da lì andava a vegliare i poderi modello avviati a Pollenzo dal bisnonno Carlo Alberto, morto esule in Portogallo. Per lui e per la regina Elena era anche la terra di cacce al camoscio, pesca di trote e vacanze serene in decenni di torbidi d’ogni genere e, va aggiunto, di attentati alla loro vita, come quello che il 12 aprile 1928 mancò di poco il bersaglio mentre Vittorio Emanuele III andava a inaugurare la Fiera campionaria di Milano, come soleva fare sin dalla prima edizione. Il tritolo collocato nella base di lampioni di ghisa fece venti morti e decine di feriti. Ma quanti altri attentati vennero progettati e sventati nel tempo…
Funerale di Famiglia per il Capo dello Stato
Cerimonia di Famiglia, tumulazione del 15-17 dicembre 2017 si svolse in forma rigorosamente privata. Quando il 28 dicembre 1947 morì ad Alessandria d’Egitto Vittorio Emanuele III era “cittadino italiano all’estero”: non “in esilio”, dunque, bensì nel pieno esercizio dei diritti civili e politici e con lo status di ex Capo dello Stato e comandante delle forze di terra e di mare, a norma dell’articolo 5 dello Statuto albertino, formalmente vigente sino al 1° gennaio 1948, quando entrò in vigore la Costituzione della Repubblica italiana. Nulla di abnorme, quindi, se al trasferimento della salma abbia concorso lo Stato, se attorno al feretro, debitamente ornato, vi fossero Carabinieri e se un caporale della Fanfara della Brigata Taurinense abbia suonato il “Silenzio” mentre il feretro scendeva nell’avello, sul quale sovrasta l’arca con la Stella d’Italia.
All’arrivo della salma della Regina uno dei presenti disse che per rallegrarsene non è necessario essere monarchici. Basta essere italiani. Era il compimento di un “gesto umanitario”, come fece sapere il Quirinale quando la Principessa Maria Gabriella di Savoia ringraziò il Presidente Sergio Mattarella per aver propiziato la traslazione col riserbo perfettamente compreso dalle decine di giornalisti che la mattina del 17 pazientemente affollarono l’immenso sagrato tra il Santuario di Vicoforte e la Palazzata, identica nei secoli dai tempi di Carlo Emanuele.
A rito concluso (quod factum est, infectum fieri nequit…), si susseguirono alcune deplorazioni. Con l’opinabile senso di opportunità che ne ha ridotto il consenso dai 10.700.000 del 2-3 giugno 1946 a molti meno, taluni “monarchici” protestarono contro la sepoltura dei Reali in una “chiesetta di campagna” e chiesero l’immediato trasferimento delle salme al Pantheon. Per oscuri motivi altri non le visitarono affatto. Taluno addirittura asserì che bisognava lasciarle dov’erano: forse ultimo appiglio per lagnarsi della Repubblica.
I conti con la Storia
Sfuggì proprio ciò che invece più avrebbe dovuto contare e conta. La Traslazione doveva far riflettere sul ruolo della monarchia nella storia d’Italia e in specie sulla figura di Vittorio Emanuele III, il “re isolato”. Invece, pronubi stucchevoli polemiche e incomprensibili silenzi, siamo sempre al punto zero. Il 5 dicembre 2020 in risposta a un lettore che domandò quali sarebbero i “meriti” di quel re, sul “Corriere della Sera” – quotidiano che si batté per l’intervento dell’Italia, impreparata, nella Grande Guerra e appoggiò l’avvento di Mussolini – Aldo Cazzullo scrisse che il sovrano bene fece a valersi di Giolitti nel primo Novecento ma, poiché il suo regno non finì nel 1922, ebbe responsabilità successive imperdonabili: il cedimento al fascismo, le leggi razziali, l’alleanza con la Germania e la disastrosa gestione dell’8 settembre 1943.
In poche righe è impossibile ripercorrere vent’anni e più. Nondimeno va ricordato che il 29 ottobre 1922, mentre in Roma non era ancora entrata alcuna “squadra” fascista e non c’era alcun bisogno di “stato d’assedio”, il Re incaricò Mussolini di formare il governo su parere unanime di politici navigatissimi, industriali, banchieri, massonerie, del partito popolare e della Chiesa cattolica, che aveva già patteggiato intese con il “duce”. Il nuovo governo comprese nazionalisti, liberali, cattolici, democratici sociali, il giolittiano Teofilo Rossi di Montelera, il filosofo Giovanni Gentile alla Pubblica istruzione, Armando Diaz alla Guerra e il massone Paolo Thaon di Revel alla Marina. Non era affatto un “regime”. A metà novembre venne approvato dalla Camera con favore straripante, ove i fascisti erano appena 37, e dal Senato ove erano 2 su 400. Che cosa poteva fare un re costituzionale? Sciogliere le Camere perché prone a Mussolini? Abolire il diritto di voto perché gli italiani votavano da bestie come ormai pensava Giolitti? Non fu il re ma l’Italia a cedere a Mussolini perché, occhi roteanti come recitasse a fare la faccia feroce, gestacci, ed eccessi d’alcova, ne sintetizzava aspirazioni e frustrazioni, come documenta il seminario sul “Fascismo magico” organizzato dall’Istituto Storico Politico e Internazionale diretto da Giorgio Galli. Che colpa vi ebbe il re?
Leggi razziali del 1938. Padre Tacchi Venturi S.J. da un decennio metteva in guardia Mussolini dalla piovra giudaico-massonica. In Senato il cattolico Filippo Crispolti chiese solo di “discriminare” i “matrimoni misti” tra cattolici ed ebrei convertiti. Ma ormai la partita era persa. Benedetto Croce non presenziò alla votazione decisiva e nessuno chiese la verifica del numero legale. La legge passò con 150 voti su 400 senatori in carica. Che cosa poteva fare da solo un re costituzionale? Ignave e opportuniste le Camere (una confezionata dal Gran Consiglio del fascismo, l’altra ora succuba ora rassegnata) votavano tutto quello che Mussolini chiedeva, pretendeva, imponeva. Furono loro ad approvare le leggi razziali. Lì è il punto. Sino a poco prima Vittorio Emanuele III aveva nominato senatori molti ebrei.
Alleanza con la Germania di Hitler? Fu decisa dal governo e votata dalle Camere, con il nazionalista Federzoni presidente del Senato, che non riuscì a opporsi neppure alla indecente invasione fascista di Palazzo Madama che intimò ai patres il conferimento del grado di Primo Maresciallo dell’Impero a Mussolini e, bontà sua, anche al Re, che da capo delle forze di terra e di mare non ne aveva alcun bisogno.
Quanto all’8 settembre, Cazzullo ammette che il groviglio era tale che Vittorio Emanuele III non può essere imputato della sua gestione non ottimale. Fu però il re l’unico garante dell’armistizio del 3/8 settembre 1943 e della continuità dello Stato d’Italia.
Fu bersaglio della feroce campagna antimonarchica scatenata da Mussolini, prelevato dall’albergo Imperatore al Gran Sasso, trasferito in Germania, issato a capo di uno Stato vassallo della Germania e finito come sappiamo. Ma due anni di contumelie repubblichine contro la monarchia lasciarono il segno. Lo si vide il 2-3 giugno 1946 quando, facendo “saltare i tombini”, tornarono a galla tutti gli odi contro l’unificazione italiana e Casa Savoia rimasti sotto traccia dal 1859-1870 e oltre e, al netto delle migliaia di brogli, decretarono la vittoria della repubblica che dovette alla propaganda antimonarchica della RSI più di quanto abbia ammesso la storiografia, compresa quella di una “destra” più succuba di alleanze elettorali che dedita alla verità.
Anno zero, dunque. Motivo in più per studiare la storia, quella che ancora non passa nei manuali e nei media. Richiederà decenni per essere capita e forse non accadrà mai. Però quella è. Per meglio comprenderla, quando torni la libera circolazione dei cittadini almeno in Italia, val la pena una visita alle Tombe di Vittorio Emanuele III e della regina Elena a Vicoforte. Non hanno alcun bisogno di essere vegliate da “guardie”. Avvolte nel silenzio dicono sommessamente: Hic manebimus optime. Lì, nel silenzio dei secoli, merita raccogliersi in meditazione. Tempo è venuto per il “cantico nuovo” dell’Apocalisse: non la apologia della monarchia o di un re, ma la storia d’Italia. Quella vera.
Dal giornale online Pensa Libero (www.pensalibero.it) per gentile concessione.