Il dono dell’abbandono
Aveva addosso la polvere del marmo di Carrara e il sole cocente della sua amata Sicilia, quando riuscì con un geniale colpo di coda ad attirare su di sé l’attenzione di tutto il mondo e ad entrare, senza “chiedere permesso”, in quel grande impero della storia dell’arte, e se vogliamo in quel mondo elitario in cui ahimè viene relegata l’arte contemporanea. Così, in quella notte ormai passata alla storia, Arturo Di Modica decretò la sua fama con una scultura bronzea raffigurante un toro di tre tonnellate la cui realizzazione costò 350.000 dollari e che venne “abbandonata” dall’artista, senza alcuna preventiva autorizzazione, nello spazio antistante la New York Stock Exchange, la Borsa di New York, con un camion, una gru, l’aiuto di qualche amico e impiegando solo cinque minuti, riuscendo ad eludere la ronda della polizia newyorkese che sorvegliava la zona. In poco tempo quel toro che cerca di rialzarsi divenne un simbolo per l’America; oggi è il monumento più fotografato dopo la Statua della Libertà ed un vero portafortuna per i passanti.
Il Charing Bull non è solo il simbolo della speranza finanziaria di Wall Street, che aveva subito un tracollo nel 1987 a cui dedicò l’opera il Di Modica, ma è soprattutto un animale che si rialza, pronto all’attacco, con tutto l’ottimismo, la forza e la sfrontatezza di cavalcare l’onda, forse, di quel sogno americano tenuto a pugni stretti. Esso incarna la poetica del “posso farcela” alla quale probabilmente bramava un giovane Arturo, è la luce abbagliante che dimora negli occhi di un artista quando mette al mondo una sua creatura. È il simbolo del potere, il potere d’imporsi in modo indipendente, “abusivo”, di chi si fa strada da solo, lasciando le proprie orme sul terreno, a volte arido e difficile, dell’arte. E la strada era il palcoscenico ideale, in un tempo in cui alcuni gli artisti si esprimevano scrivendo e dipingendo sui muri, invadendo spazi pubblici nelle varie città del mondo, trasformando quei luoghi in ascoltatori silenziosi di proteste e in gallerie en plein air a cui affidare il proprio pensiero, la propria bramosia di vivere al di là del conformismo, lasciando sulla strada alla gente comune la possibilità di fruirne gratuitamente.
Di Modica si impose seminando la propria arte per le strade di New York, già alla fine degli anni ’70. Piccole sculture in marmo, disseminate lungo il corso che va da Soho al Rockfeller Center, erano l’adrenalinico bisogno di imprimere la propria presenza ed essenza, quello stesso bisogno che accomuna ogni artista nel mondo, dove “l’abbandono” diventa “dono”. L’artista abbandonando e donando le sue opere le perde, e separandosene fa l’esperienza del lutto perché perde una parte di sé, sacrifica l’oggetto d’amore, con la consapevolezza che quell’unione primigenia, come accade alla madre con il figlio, è un’illusione e che da lì a poco diventerà egli stesso spettatore del percorso che esse imboccheranno, ma perdendole allo stesso tempo le ritrova, seppur rivestite di una luce nuova, perché per sempre intrise della sua essenza.
Le opere del Di Modica sono fortemente intrise della sua essenza, corpi armonicamente modellati spesso immortalati nell’atto di rialzarsi, che si impennano, che trasudano forza e tenacia, corpi in tensione, caldi e vellutati, sono sculture cariche di pathos, come i suoi famosi Cavalli Ipparini, monumentale scultura di un famelico abbraccio di due cavalli che impennandosi e sorreggendosi reciprocamente formano un grande arco, opera che avrebbe donato alla sua amata Vittoria, città natia, progetto a cui l’artista stava lavorando da parecchi anni, purtroppo non portata a termine. Le sue grandi mani laboriose si aprono al cielo ed esclamano “ecco fatto”, sono le mani di chi con le mani stesse ci lavora, crea, trasmette e si emoziona, mani aperte che accolgono, che si abbandonano e donano; sono la speranza di quel “Nuovo Rinascimento” tanto sospirato e sperato delle nuove generazioni, della sua terra e del mondo intero, sono le mani che aiutano quel toro, che in fondo è dentro ognuno di noi, a rialzarsi con coraggio, che combatte contro le proprie debolezze, pronto a rincuorare il dolore di una generazione spaventata senza certezze, e che troppe volte utilizza la forza per distruggere e non per creare, è una bestia che guarda negli occhi, diventata col tempo il simbolo della lotta ai bullismi, tema molto caro all’artista, infatti era pregnante in lui il desiderio di donare coraggio ai giovani attraverso l’arte, attraverso un “elevazione” culturale e sociale.
Ogni cosa che deve elevarsi necessita di una spinta, ci vuole forza per saltare, ed è proprio lì in quel piccolo frangente che si delinea la sua poetica, nella carica iniziale, che sospinge tutto verso il cielo, nello slancio vitale, e che lì rimane per sempre in dono all’umanità.
Arturo Di Modica si è spento ad ottant’anni, il 19 febbraio scorso, con tanti sogni nel cassetto, progetti da realizzare che lo tenevano sveglio la notte, artista visionario, poeta del movimento, in cui convogliano coraggio, forza, amore per i dettagli, ricerca della verità attraverso l’arte, e un pizzico di follia, quella sana follia che spinge oltre i confini, oltre i muri, le ristrettezze e le conformità, quella sana follia di cui ancora riescono, grazie al cielo, ad impregnarsi gli artisti che lavorando con i piedi per terra e la testa per aria sono capaci di regalarci emozioni.