21 marzo, il silenzio è mafia
Il 21 marzo, il giorno che segna il passaggio dall’oscurità dell’inverno alla luce della primavera, dal 1996 è anche simbolo di risveglio sociale e culturale, che ci impone di rinnegare ogni forma di oscurità criminale e di rinascere alla luce di un rinnovato impegno collettivo contro tutte le mafie.
Un giorno così essenziale per affermare la nostra identità di cittadini liberi da ogni illegalità che nel 2017, con voto unanime alla Camera dei Deputati, è stato riconosciuto quale “Giornata della Memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime della mafia”.
Perché menzionare, uno per uno, tutti coloro che hanno perso la propria vita pur di non soggiacere a compromessi criminali, significa restituire loro l’individualità negata e il diritto a essere ricordati per il loro eroico coraggio.
Un giorno che è nato dal dolore della mamma del caposcorta di Giovanni Falcone, Antonino Montinaro che come gli altri due suoi colleghi Rocco e Vito, persero la vita nella strage di Capaci ma che durante le commemorazioni venivano genericamente chiamati “I ragazzi della scorta”.
I nomi di tutte queste vittime innocenti, devono essere scanditi, detti ad alta voce con fermezza, affinché il loro eroismo non sbiadisca negli anni ma resti impresso negli animi di tutti, se si vuole costruire una società impegnata e legalmente democratica, che non si lasci intrappolare nelle dinamiche mafiose che generano corruzione, clientelismo e soprattutto favoritismo politico. L’organizzazione mafiosa, come un cancro, diffonde le sue metastasi in ogni settore della società, si avviluppa in modo invasivo con la compiacenza dei palazzi del potere che divengono strumenti delle loro azioni criminose. Ed è inutile negare che la mafia, se ancora oggi è così ramificata e potente, lo deve alla protezione che gode ai piani alti, assicurata da politici senza scrupoli.
Alimentare la memoria di tutti coloro i quali si sono opposti a questa sistema corrotto, è un nostro dovere affinché la loro forza diventi simbolo perpetuo di lotta ed esempio per tutti noi.
Lotta che, a dispetto di quello che certa politica vuol far passare, riscatta soprattutto noi siciliani, spesso tacciati di omertà e di collusione.
La nostra storia non coincide con quella della criminalità organizzata, ma con uomini di valore che hanno messo al primo posto la propria integrità come Peppino Impastato, giovane attivista politico di Cinisi, Gaetano Costa, procuratore capo di Palermo, Vito Lipari, sindaco di Castelvetrano e i giudici Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, solo per ricordarne alcuni ma la lista è molto ma molto lunga che ha avuto inizio nel 1909.
Pochi ricordano che il primo omicidio eccellente di mafia è avvenuto qui in Sicilia ed è stato quello di Joe Petrosino, l’eroico poliziotto che ritornò nella sua terra, dopo essere vissuto per 36 anni in America, per indagare sui legami tra i boss siciliani con quelli americani, in modo da poterli contrastare e smantellare.
Joe Petrosino, fu crivellato di colpi sparati alle spalle da due sicari, davanti al cancello della villa Garibaldi a Palermo il 12 marzo di quell’anno.
Un uomo dal coraggio straordinario il quale dopo essere stato un infiltrato nelle bande di Little Italy, iniziò a indagare sugli affari illeciti della criminalità organizzata. Ottenute prove importanti, nonostante fosse consapevole del pericolo a cui andava incontro, decise di venire qui in Sicilia, e anche se il suo nome in codice venne sbattuto in prima pagina, non rinunciò a perseguire il suo obiettivo di fermare i traffici tra mafia locale e americana e soprattutto portare alla luce del sole i legami segreti tra politica e criminalità, scoperti in occasione delle imminenti elezioni. Tutti uomini di mafia appartenenti all’organizzazione denominata “Mano nera”.
La sua determinazione nel voler scoprire gli oscuri intrecci, lo portò alla sua condanna a morte che fu decretata dal mafioso Cascio Ferro che all’inizio riuscì a farla franca grazie alla scandalosa testimonianza resa da un deputato neoeletto, ma che, grazie all’impegno di un altro uomo, non invischiato nel sistema, il prefetto Cesare Mori, anni dopo, fu arrestato e condannato all’ergastolo.
Oggi più che mai abbiamo il dovere di continuare a lottare per un reale cambiamento che conduca a una vera affermazione di verità e di giustizia che impregni in modo profondo e decisivo il nostro vivere quotidiano.
Questa nostra battaglia non deve essere ridotta a una sola giornata di indignazione per poi ritornare alla normalità come se fosse una questione avulsa da noi, perché le mafie, e la corruzione che ne deriva, non sono un problema solamente criminale ma soprattutto sociale e culturale che va affrontato con l’unione di tutti, istituzioni e cittadini. La nostra opposizione si deve trasformare in un impegno costante e continuo da parte di tutti noi, deve essere un unico e grande movimento culturale che, come un urlo potente, abbatta gli spessi muri di omertà.
Perché il silenzio è mafia!